Rusky Beatz
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Rusky Beatz
Tramonto rosso
Vladimir si alza in piedi, incerto a causa dell’incredibile quantità di vodka che ha ingurgitato stasera, e usando il suo indice come una bacchetta impazzita indica in aria, ma è come se stesse indicando l’intera nazione. “La nostra patria non può cadere. Il soviet, unito, è capace di sostenere il peso del mondo intero”, dice lui, mangiandosi le consonanti. Da quanto ubriaco è quel ciccione se potesse si mangerebbe anche le vocali e tutto il resto. Lo guardo, anche io un pò traballante e con la testa pesante, un pò schifato da quel alcol etilico che con orgoglio lui “distilla personalmente nella vasca da bagno” e io penso che in realtà serva per creare una fortissima resistenza al cianuro. Non c’è veleno più forte di questa brodaglia che lui trangugia di gusto a bicchieri stracolmi, per poi battersi le mani sul pancione. “Il soviet non è più quello di una volta” gli dico io “non esiste proprio più. Sono morti tutti i rivoluzionari ormai, e chi ha combattuto nella grande guerra patriottica beh, quelli buoni ci sono rimasti secchi tutti. Ci stanno ammazzando di stenti. La fila per il pane, non dovrebbe esistere in una nazione moderna. Tra dieci anni è il 2000, le auto voleranno, e noi facciamo la fila per il pane”. L'omaccione corpulento mi guarda truce. I suoi occhi neri sono diventati vitrei, come se quel brodo alcolico lo avesse trasformato dall’interno facendolo diventare una matrioska bruttina. “Non ne sai niente te, non c’eri. Non puoi capire. Se fossi ubriaco ti prenderei a pungi in testa”. Il suo pancione traballa e rimbalza a ogni sua minaccia, gonfiandosi e sgonfiandosi come un dirigibile sotto lo sforzo ritmico dei polmoni. “Io non starò qui a scoprire cosa faranno a chi perde la guerra” gli rispondo, guardando la porta in ferro grigio del piccolo appartamento. “Noi non abbiamo perso proprio nulla. Finchè sono vivo io non ho perso niente!”
-”Come se fossi tu tutto il soviet. Beh con quella pancia che hai il tuo voto deve valere almeno come quello di tre persone”. Vladimir odiava chi sparlava dell’unione, ma odiava ancora di più chi gli faceva notare i suoi difetti.
-”Artyom, vigliacco. Sei un vigliacco e se non sei coraggioso abbastanza per morire per la madre patria allora scappa tra i conigli e le galline, ti troverai come a casa”.
-”Tu moriresti per mangiare un altro Cheburyky, è facil. per te parlare di morire. Ma la mia vita ha un valore, e non intendo buttarla via correndo contro una bomba atomica”.
-”Anche noi abbiamo le bombe atomiche, cosa credi? Molto più grandi delle loro. Ne ammazziamo di più noi”.
-”Ne ho una davanti a me proprio ora”.
“-Artyom. Tu mangi perchè servi il tuo paese. Se non fossi un pilota non mangeresti. Moriresti di fame e di freddo. Dove andresti a dormire? Ti abbiamo dato tutto e adesso tu ci sputi sopra”.
sto zitto. Non so cosa rispondere. La realtà è che Gorbaciov ha un piano che è così segreto che non lo nasconde neanche. È così evidente, ma nessuno vuole crederci. Nessuno vuole credere che l’unione sovietica sta per crollare. Eppure lo sta facendo davanti a tutti, in televisione, ai comizi. Sta preparando lo smantellamento del nostro paese, ma sono tutti troppo accecati per vedere quello che gli sta succedendo davanti agli occhi. O meglio, lo vedono, ma non lo credono possibile.
-”Me ne vado. La tua vodka non mi farà dormire stanotte”.
-”Vattene, Artyom, vattene. Fuori da casa mia. Ti caccio”.
L'enorme complesso di appartamenti si erge alle mie spalle, grigio, freddo, spento. Non c’è luce, non c’è rumore. È così silenzioso che sembra un grosso mostro dormiente, uno di quelle storie antiche che mi raccontava mio nonno. Il piccolo marciapiede in cemento è un pò ghiacciato a causa delle nevicate dell’ultima settimana, e tutto attorno a me è bianco. Grossi rettangoli scuri che sembrano essere sbocciati dal terreno attraversando il soffice manto nevoso, mostri che hanno inglobato tutta la popolazione di San Pietroburgo. Cammino incerto nella notte scura, con le mani infilate nelle tasche del giaccone. Il mio vecchio colbacco mi copre la testa fino alle orecchie, ma non il naso, che rimane esposto al gelo. Ogni respiro genera una piccola nuvoletta argentata davanti a me, e ad ogni respiro è come se migliaia di invisibili puntine si infilassero nel mio collo. Provo a incastrare la bocca sotto al colletto del giaccone, ma non aiuta molto. La strada verso casa mia è abbastanza lunga, ci vuole sempre una mezz’ora quando torno ubriaco. Cerco di non pensare troppo a quello che sta succedendo, non ne vale la pena di stare male per una cosa che non posso evitare. Io che quasi non potrei guidare un'auto, mi preoccupo di salvare l’intera nazione. I grossi rettangoli morti giacciono ai lati della strada costanti, ritmici. Dentro di loro migliaia di famiglie, migliaia di persone che dormono nei loro letti. Tra poco sarò anch’io uno di loro. E infatti il tempo vola quando ti preoccupi per qualcosa che non puoi controllare, e senza accorgermene mi trovo davanti al portone di casa. Mi faccio strada attraverso la prima grossa porta, e poi attraverso una seconda. Le porte qui non le chiude mai nessuno, anche perché di chiavi non se ne vedono. Salgo gli scalini per arrivare al secondo piano, e mi sembra che dentro all'androne delle scale sia addirittura più freddo che non per strada. La porta di casa mia mi attende, solida e stoica, divide quello che è mio dal resto del mondo. Pensandoci bene, è l’elemento più importante per la mia protezione. Chissene frega. Le dò un gran calcione per richiuderla, e il botto rimbomba lungo il dedalo di corridoi di cemento gelido. Il riscaldamento non va e la mia stanzetta è freddissima. Accendo il gas e riempio una teiera d’acqua da scaldare. In pochi minuti il tè è pronto e lo sorseggio mentre guardo fuori dalla finestra. Illuminati dai lampioni, piccoli fiocchi bianchi danzano leggiadri, trasportati dal lieve vento gelido. Ha ricominciato a nevicare. Sorseggiando quel caldo ben di dio riprendo piano piano sensibilità al naso e alle mani, mentre penso a tutto lo schifoso lavoro da spalaneve che mi aspetta domattina. Non c’è cosa più piacevole che riposare al calduccio sotto le coperte.
Bom bom bom. Sento bussare alla mia porta. “Artyom vieni fuori! È ora di lavorare. Non costringermi ad entrare”.
-”Ma vaffanculo”. È la voce di Pyotr, il merda del sovcon che gestisce il condominio. Secondo lui i piloti e gli autisti di autobus devono spalare la neve perchè per guidare basta stare seduti, e quindi eccoci in fila, 5 idioti infreddoliti con i badili in mano, disposti dal portone d’ingresso fino quasi in strada a spalare neve.
“Bella giornata, è Yosha?” faccio all’unica persona del gruppo che conosco, oltre a Pyotr ovviamente ma lui è già tornato a letto.
-”Taci, per piacere. Com'è che ti chiamavi?”
-”Artyom.”
-”Ecco sì. Artyom, taci per piacere”.
-Che antipatico. “Yosha in sanscrito vuol dire donna” farfuglio sottovoce in tutta risposta.
-”Che hai detto?” Mi fa lui.
-”Niente, niente. Scusami. Solo che il tuo nome vuol dire donna in sanscrito”.
-”Artyom. Vaffanculo".
Alba Bianca
Spalare la neve ha di bello che a forza di badilate ti riscaldi anche se il sole deve ancora sorgere, e viste le due montagnette di neve che giacciono sfinite davanti ai giardini del condominio direi che di lavoro ne abbiamo fatto. Ha di brutto però che ti mette fame, e avere fame in questo momento storico è una cosa abbastanza brutta perchè ti tocca stare a digiuno finchè una persona come Vladimir non ti invita a cena. Con le mani in tasca guardo il vialetto pulito mentre gli altri 4 uomini si trascinano sconsolati verso l’ingresso del palazzo. Le loro figure scure, completamente avvolte in cappotti, cappelli e sciarpe danno l’impressione di essere dei pupazzi di neve. Sotto tutti quegli strati si nascondono tre grosse e soffici palle bianche poste una sopra l’altra. Stronzi. Il sole mattiniero prova a sorgere dietro al muro di cinta costruito a mattoni e malta scadente, illuminando quel grosso condominio infondendogli un'aurea quasi mistica.
-”È ora di colazione” mi dico per farmi coraggio e tornare dentro al mostro. Mentre bevo il mio tè guardo sempre fuori dalla finestra, seduto sulla sediolina in legno, mangiando un pò di pan pepato dentro ad un cestino intrecciato che giace tranquillo sul tavolino.
-”La polvere di tè si può riusare fino a quattro volte, chi non la pensa così è stupido”. Se c’è qualcosa che è davvero, non ironicamente, utile nello spalare neve è che ti fa passare qualsiasi tipo di sbornia. Il pegno da pagare è di 15 badilate ogni mezza bottiglia, e se la temperatura è sotto zero ne bastano anche meno.
Quando fa freddo il tè finisce sempre troppo in fretta, e quando devi andare a lavorare non c’è mai abbastanza tempo per berlo. Con il tè è sempre tutto un casino. Alle 8:30 dovrebbe arrivare l’autobus che passa per il nevsky prospekt fino in centro a san Pietroburgo, per poi prendere la esd e portarmi fino al isola Kotlin, lì c’è il piccolo campo di volo dove presto servizio. Non ci vuole più di un'ora per arrivarci, ma dipende sempre tutto da chi guida l’autobus.
Le porte del bus si chiudono sfiatando dietro di me e il grosso cubo sferragliante si allontana. Sono in piedi davanti al grosso cancello coperto da filo spinato della base aerea. Anche quì è tutto coperto di neve, e l’unico camion spazzaneve si da un gran dafare per liberare la pista. Ci sono almeno otto persone che spalano via la neve dagli alloggi degli ufficiali, sembra che in quei giardinetti ed in quei viali non sia mai sceso un fiocco nella storia di questo pianeta.
Affronto a malincuore quei pesantissimi passi che dividono il me libero e spensierato dal me lavoratore sottopagato e maltrattato. Il cancello è aperto giusto abbastanza a far entrare una persona, e quindi per poter entrare i camion e quei ciccioni degli ufficiali devono farsi spalancare il cancello dalla guardiola. Saluto il soldato che dorme spaparanzato sulla sedia, con gli scarponi posati sulla scrivania. Rassegnato mi muovo verso l'hangar che cela al suo interno il mio Sukhoi Su-27, un caccia intercettore supersonico, una cosina pensata per abbattere quegli stupidi F-15 americani. Solo che non c'è modo di farlo staccare da terra, o meglio, non c'è modo di convincere il comandante Smirnoff che gli aerei sono fatti per volare. Secondo lui la vita sedentaria dentro a un hangar fa bene all'aereo, ma soprattutto al suo portafoglio visto che per ogni missione ci vengono mandati dal GlavKRU e dal ministero delle finanze rubli in abbondanza, i quali finiscono però tutti dentro alle valigiette che si porta a casa Smirnoff. E così siamo tutti a terra finché il beota non finisce di ristrutturare il suo conto in banca. Venderebbe anche l'aereo se solo il compratore si facesse il pieno di carburante da solo. Salire sul Sukhoi numero 8 è l'unica attività che mi fa passare le lunghe e fredde giornate, che ormai si stanno allungando col finire dell'inverno. È una freccia da 21 metri, con 14 metri di apertura alare. È coperto da una mimetica a ERDL blu.
“Hey, Artyom!”- una voce dietro di me, che riconosco anche troppo bene, interrompe forse l’unico momento di quiete che avrò oggi- “Che fai lì a prendere freddo? Quei motori non ti scalderanno mica, non senza carburante!”, una stupida frase seguita da una risata ancora più stupida.
-”Vladimyr Ivanovich, che bella sorpresa. Oggi non ti andava di avere a che fare con tua moglie e sei venuto a nasconderti a lavoro?”.
-”Sempre a parlare a sproposito, la madrepatria è in difficoltà e tu fai questi discorsi. Dovrei denunciarti al comitato per la sicurezza dello stato”.
- “Che battuta idiota, non si scherza sul KGB, quelli ti fanno fuori per ridere”. Indispettito, mi dirigo a lunghi passi verso i grossi portelloni aperti dell’Hangar mentre Vladimir spinge si affianca ad un grosso carrello vuoto e puntando le mani su un grosso maniglione in ferro orizzontale lo spinge chissà dove, in fin dei conti deve anche lui occupare la giornata. Il comando operativo della base aerea dista dalla pista solo una manciata di minuti, ma a causa del continuo andirivieni degli spazzaneve, che accumulano montagne su montagne di neve e la lasciano sopra il marciapiede, mi serve il doppio del tempo contando ogni deviazione che mi tocca fare per non venire schiacciato. Mentre mi avvicino all’altissima torre di controllo in cemento, a tratti ricoperta di neve, mi sento sempre più piccolo. Proprio come se quell’imponente edificio freddo fosse lì non solo per ricordare a tutti chi comanda l’aeroporto, ma anche che vede ogni cosa. È infatti impossibile sfuggire alla costante presenza della torre, e il suo sguardo malvagio si presenta pesante sui piloti e su tutti i lavoratori.
La piccola porta in ferro si apre sempre controvoglia, bisogna convincerla facendo forza e nei giorni più freddi anche con qualche spallata. Attraverso l’ingresso velocemente e mi dirigo al primo piano dov’è situato il mio armadietto. Nell’edificio sembra non ci sia anima viva, ma questo solo perchè ognuno è chino, si potrebbe dire nascosto, dietro alla propria scrivania o nel proprio sgabuzzino. La voglia di chiacchierare fugge dal tuo corpo non appena superi quella soglia arrugginita, per paura che persino i muri siano in ascolto di ogni tua singola parola, e che al primo commento sbagliato....beh.
Da solo negli spogliatoi, mi guardo allo specchio rotto e sporco. Un piccolo termosifone arrugginito scricchiola e farfuglia come se fosse arrabbiato di essere stato dimenticato in un angolo della stanza, l’unico mezzo per riscaldarsi un pò. La mia tuta è verde è stretta nelle gambe e attorno alla pancia, in modo che il sangue fluisca al cervello durante le manovre ad alti G. Forse è per questo che sono l’unico immune alle becere storie di Smirnoff, l’unico degli irritati che non si è ancora fatto trasferire in siberia o uccidere in qualche bettola. Sono stanco di fare questo lavoro schifoso. Sono entrato nella marina per volare e per uccidere americani, ma fino ad oggi non c’è stata neanche mezza occasione di scontro, a malapena occasione di volare. Giusto un paio di anni fa è finita la guerra in Afganistan, mi ero appena diplomato quando è finita. Inizialmente deluso, mi è bastato scambiare qualche parola con chi ne è venuto fuori per capire che ho avuto fortuna, nessuno è tornato. Sono tornati in tanti sì, ma nessuno di loro è tornato uguale a com’era partito. Indossando il casco grigio con la visiera scura, nascondo le occhiaie. Tutta l’attenzione ricade sulla grande stella rossa che ho dipinta sulla tempia destra del casco. Guardo quella figura, che ha ben poco di umano, con la maschera d’ossigeno a penzoloni, con quel tubo zigrinato che pare una proboscide. Chi vola non è un umano come tutti gli altri. È di più. Chiunque può camminare a terra, e chiunque può farsi una nuotata o attraversare il fuoco. Un pilota ha in mano l’aria. Sotto i suoi piedi le nuvole, e sopra di sè le stelle e il sole. Molto più vicino di chiunque altro. Sono sempre lì, sopra tutti voi, libero dalla gravità e dalle leggi dei grandi scienziati, libero dagli affitti e dalle file per il pane. Sfreccio lontano da tutto e da tutti, da solo.
Il gorgoglio sempre più impetuoso del termosifone mi richiama alla realtà terrena. La mia mente è sempre in aria, tra le nuvole. Scendo pesantemente le scale e faccio un giro nell’androne. Guardando fuori dalla finestra vedo che oltre i mucchi di neve sta accadendo qualcosa di strano. Vedo un camion svincolarsi tra gli hangar, e delle persone che gli corrono dietro impazzite. Vedo che c’è un gran trambusto, un via vai di persone e cose. Una porta dietro di me si spalanca con vigore e dei passi pesanti occupano interamente l’androne della grande torre. È un capitano dei fucilieri della guardia, un altissimo cosacco che col suo colbacco grigio troneggia sopra la figura di Smirnoff, stranamente minuscola. Appuntato al cappotto del capitano c’è uno scudo rosso con una spada d’orata. Si mette male.
“Che fai lì impalato? Muoviti subito!”. Il capitano mi fissa con odio senza mai fermarsi. Io mi scosto di poco. Mentre mi passa a fianco sento freddo, quasi non sembra una persona. Spalanca le porte quasi rompendole. Prima che si chiudano io mi riprendo dalla sorpresa e stranamente mi passa la poca voglia di fare, con passo veloce, quasi di corsa, mi metto a inseguire il duetto. Mentre dietro di me si chiude la porta sento che la fredda e vuota stanza è improvvisamente diventata un formicaio di persone che corrono avanti e indietro con fogli e cartelle, telefoni che squillano e un costante brusio di voci.
Smirnoff tiene le mani giunte davanti al petto, cerca di parlare ma ogni sua frase viene interrotta la capitano, che a grandi falcate marcia fissando gli hangar dritto avanti a sè. Io li raggiungo e mi metto dietro ai due, camminando a passo sostenuto.
“Non ci saranno altre occasioni!” è l’unica frase che riesco a rubare, incuriosito dalla situazione. La tuta però mi suggerisce di farmi gli affari miei. L'informazione è potere, ma forse in questo caso è meglio limitarsi ad obbedire.
In brevissimo tempo arriviamo al mio hangar. Un gruppo di meccanici sta rimontando un pannello sulla fusoliera mentre una pompa è collegata al serbatoio. Il capitano si gira e mi fissa con occhi vuoti, senza dire una parola corro verso la scaletta per arrampicarmi nella cabina.