Alfonso Scariot
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Alfonso Scariot
La fine e l'inizio
“Stupido ronzino” dice Alfonso, assestando un leggero ma deciso pugno sulla spalla del suo cavallo “Ti piace scappare, eh?”. Il cavallo nitrisce, si scuote e abbassa la testa. La tela di lino azzurro e bianco che lo copre, sul quale è fissata la sella, è ancora completamente pulita. ”Non dirmi che hai anche la pancia piena!” e mentre dice queste parole da dei lievi buffetti sulla pancia dell’animale, la quale tambureggia di suoni sordi. Il cavallo era fuggito due notti fa, ripercorrendo il sentiero a ritroso fino a raggiungere la piccola chiesa del paesino che riposa all'imbocco della valle. Il prete del paese lo aveva chiuso in uno dei tanti pascoli abbandonati dai contadini in fuga dalla bestia, o dalle voci che correvano su di essa. Alfonso, provato dalla battaglia e dalla camminata a piedi, si siede sull'erba del pascolo verde accanto ad un piccolo ruscello cristallino, la cui fonte è sulla montagna, che placidamente scorre verso il mare. È il ruscello usato dagli animali al pascolo per abbeverarsi. Il cavallo è in piedi al sole, mentre Alfonso si riposa ombreggiato dalle enormi querce e dagli antichi faggi che si impongono nel cielo da oltre la staccionata del pascolo. Piccoli e brevi passi frusciano dietro di lui nell'erba alta. Il cavallo drizza le orecchie, alza la testa e resta immobile. Alfonso ha già la mano sull'elsa della spada quando grida, ancora da seduto: “Spero che tu non sia una bestia, perché ho fame”. A queste parole il rumore cessa di colpo. "Forse il servitore di Dio ha una soluzione per questo tuo problema, Cavaliere”. -”Mi piace quello che sento, prete.” gli risponde senza girarsi “Ma non lasciare che la curiosità si trasformi in dubbio”. Senza perdere tempo il prete gli risponde: ”Io dubito che non troverete nulla di vostro grado alla mia mensa”. - “La lingua biforcuta è in bocca al maligno” controbatte Alfonso, “E lo stomaco vuoto è del cavaliere” gli risponde il prete mentre riprende il cammino nell'erba fiorita, verso la canonica. Alfonso non ha neanche il tempo di girarsi che la piccola figura, coperta dal saio marrone, è già scomparsa tra le case vuote. “Vecchio mio” dice al cavallo “oggi si viaggia a naso”.
Muovendosi tra le poche e alte case in pietra, Alfonso cerca di seguire l'unico camino fumante, incastrandosi tra gli stretti vicoli del paese. Dietro un edificio affrescato trova un grande cortile pavimentato a sampietrini, al cui centro si impone una grossa quercia scura le cui radici sono chiuse in un'aiuola. Dietro questa, un portone in legno e ferro incastonato sulla maestosa facciata di un'antica chiesa in pietra. Nella parte di destra del portone una piccola feritoia aperta permette di vedere l'oscurità all'interno del grande edificio. Alfonso, vi ci si incastra come meglio può e viene accolto entro le mura gelide. In fondo alla navata, alla destra dell'altare, da una piccola porta scappa una fioca luce tremolante di focolare. Nonostante il grosso rosone e le molte vetrate, i suoi occhi faticano ad abituarsi al buio così profondo. I suoi passi ritmati risuonano nel grande e buio scheletro dell'antico edificio mentre si avvicina alla piccola stanzetta. Al suo interno il prete si dà un gran da fare per accogliere il suo nuovo ospite, per poi sedersi, dando le spalle al focolare. “È da molto tempo che questa Chiesa è vuota” dice il prete ad Alfonso, il quale, senza troppi complimenti, siede la tavola imbandita. ”I fedeli non ci sono più a causa del mostro”. “Ora potranno finalmente ritornare” gli risponde impettito il cavaliere “Ho sconfitto quella bestia una volta per tutte”. Mentre dice questo, affonda le mani nel pane strappandone generosi pezzi, che poi intinge nella zuppa di carne. Il prete lo osserva nutrirsi, fissandolo arcigno senza deferire parola. “Dopo pranzo suoneremo le campane a festa, capiranno di poter tornare”. “Chi capirà?” gli fa il prete. “I contadini, gli artigiani, insomma tutto il paese, potranno tornare alle loro case” risponde Alfonso con la bocca piena. Il prete gli versa del vino rosso in un calice d’oro. Il cavaliere fissa il calice davanti a sé, sorpreso, -deve essere quello che usa per la messa- pensa. “Voi non mangiate, Padre?” gli chiede portandosi il pesante calice alla bocca. “Non vorrei rovinare la tua ultima cena” gli risponde lui. Alfonso si ferma, immobile, fissando il calice mezzo vuoto. Una lunga lingua di fuoco fugge dal focolare, illuminando l’intera stanza. Da figura minuta il prete sembra crescere e gonfiarsi, oscuro e imponente. “Mi sembrava di non aver reso grazie” dice Alfonso con l’arrogante calma della stanchezza, alzandosi da tavola e posando la mano destra sull’elsa della spada. La luce che schiarisce la lunga tavola imbandita ne rivela il satanico orrore. “Hai bevuto dal calice, e ora puoi vedere”. I piatti sono stracolmi di carne e pezzi cotti che sembrano dita umane. Occhi conditi, un piccolo braccio arrosto, una tinozza piena di capelli variopinti. E il calice risplende di rosso scarlatto, un colore anche troppo noto ad Alfonso, il colore del sangue. “Non c’è popolo da chiamare, il popolo non è mai fuggito” gli dice il prete con voce sempre più graffiante e rauca. Delle gemme nere ed allungate risaltano all'interno delle sue sclere gialle scagliate. Un improvviso conato prende di forza Alfonso, che vomita sulla tavola imbandita di orrori, e subito cerca la via della porticina. Dietro di lui uno strisciare, una bestia enorme e morbosa che striscia placidamente e con facilità distrugge il tavolo in legno, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Davanti all'altare, illuminato nell'oscurità dalla fioca luce del rosone, Alfonso si mette in guardia con la spada sguainata. Piccoli riflessi di luce si originano dagli elementi in ferro lucido della sua armatura, colpiti sporadicamente dalla luce del camino che riesce a superare l'oscura figura del mostro. Un sibilo di frusta rimbomba nel vuoto della Chiesa, e Alfonso fa a malapena in tempo a scansarsi all'indietro per evitare il colpo della mostruosa coda assassina, che lo manca mandando in frantumi l'altare. “Non c’è scampo!” gridano all’unisono i due, l’uno avvicinandosi e l’altro indietreggiando. “Bestia disgustosa!” grida Alfonso mentre cerca una via d’uscita. -” Sì, maestosa in crudeltà” gli ribatte con fetido orgoglio quell’orrido essere. “In nome del maligno, brucerai e ti strazierai ai suoi piedi, accetta il tuo destino”. Al sentire queste parole il cavaliere è accecato dalla collera, -prima mi ha fatto mangiare carne umana, ora mi schernisce, a me! - “Il destino che accetto è la salvezza Divina! Io sono Alfonso Scariot!” e con queste parole scatta in avanti sferrando un poderoso colpo di spada al torace della bestia. Il colpo risuona in tutta la chiesa. Il metallo vibra forte ed acuto contro la corazza dura ed impenetrabile del mostro, e dal fendente scaturisce un fiore rosso di scintille che per un breve istante illumina le figure dei due combattenti. Ma nulla accade. Ogni speranza è perduta. L'enorme bestia sovrasta imponente il piccolo cavaliere, impotente. Alfonso stringe la spada a due mani, trascinando i piedi in posizione di guardia, pronto a colpire ancora al grido di “Pro eques rub-”. Un'esplosione tremenda scuote lo scheletro dell’edificio, ed una chiara luce soffoca l’intera navata. Senza dubitare, Alfonso si getta a rotta di collo verso l’enorme portone che si è spalancato, mentre la bestia si rintana nell’oscurità. A pochi passi dall’uscita Alfonso scorge una sagoma nera che risalta nella luce. “Stupida bestia!” grida mentre lanciandosi in un balzo disperatissimo cade in groppa al suo cavallo, il quale, sorpresissimo, stava già quasi galoppando in direzione opposta alla chiesa.