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Rusky Beatz 

Rusky Beatz 

Pubblicato 30 ago 2024 Aggiornato 30 ago 2024 Historical
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Rusky Beatz 

Tramonto rosso

Vladimir si alza in piedi, incerto a causa dell’incredibile quantità di vodka che ha ingurgitato stasera, e usando il suo indice come una bacchetta impazzita indica in aria, ma è come se stesse indicando l’intera nazione. “La nostra patria non può cadere. Il soviet, unito, è capace di sostenere il peso del mondo intero”, dice lui, mangiandosi le consonanti. Da quanto ubriaco è quel ciccione se potesse si mangerebbe anche le vocali e tutto il resto. Lo guardo, anche io un pò traballante e con la testa pesante, un pò schifato da quel alcol etilico che con orgoglio lui “distilla personalmente nella vasca da bagno” e io penso che in realtà serva per creare una fortissima resistenza al cianuro. Non c’è veleno più forte di questa brodaglia che lui trangugia di gusto a bicchieri stracolmi, per poi battersi le mani sul pancione. “Il soviet non è più quello di una volta” gli dico io “non esiste proprio più. Sono morti tutti i rivoluzionari ormai, e chi ha combattuto nella grande guerra patriottica beh, quelli buoni ci sono rimasti secchi tutti. Ci stanno ammazzando di stenti. La fila per il pane, non dovrebbe esistere in una nazione moderna. Tra dieci anni è il 2000, le auto voleranno, e noi facciamo la fila per il pane”. L'omaccione corpulento mi guarda truce. I suoi occhi neri sono diventati vitrei, come se quel brodo alcolico lo avesse trasformato dall’interno facendolo diventare una matrioska bruttina. “Non ne sai niente te, non c’eri. Non puoi capire. Se fossi ubriaco ti prenderei a pungi in testa”. Il suo pancione traballa e rimbalza a ogni sua minaccia, gonfiandosi e sgonfiandosi come un dirigibile sotto lo sforzo ritmico dei polmoni. “Io non starò qui a scoprire cosa faranno a chi perde la guerra” gli rispondo, guardando la porta in ferro grigio del piccolo appartamento. “Noi non abbiamo perso proprio nulla. Finchè sono vivo io non ho perso niente!” 
-”Come se fossi tu tutto il soviet. Beh con quella pancia che hai il tuo voto deve valere almeno come quello di tre persone”. Vladimir odiava chi sparlava dell’unione, ma odiava ancora di più chi gli faceva notare i suoi difetti.  
-”Artyom, vigliacco. Sei un vigliacco e se non sei coraggioso abbastanza per morire per la madre patria allora scappa tra i conigli e le galline, ti troverai come a casa”.  
-”Tu moriresti per mangiare un altro Cheburyky, è facil. per te parlare di morire. Ma la mia vita ha un valore, e non intendo buttarla via correndo contro una bomba atomica”.  
-”Anche noi abbiamo le bombe atomiche, cosa credi? Molto più grandi delle loro. Ne ammazziamo di più noi”.  
-”Ne ho una davanti a me proprio ora”. 
“-Artyom. Tu mangi perchè servi il tuo paese. Se non fossi un pilota non mangeresti. Moriresti di fame e di freddo. Dove andresti a dormire? Ti abbiamo dato tutto e adesso tu ci sputi sopra”.  
sto zitto. Non so cosa rispondere. La realtà è che Gorbaciov ha un piano che è così segreto che non lo nasconde neanche. È così evidente, ma nessuno vuole crederci. Nessuno vuole credere che l’unione sovietica sta per crollare. Eppure lo sta facendo davanti a tutti, in televisione, ai comizi. Sta preparando lo smantellamento del nostro paese, ma sono tutti troppo accecati per vedere quello che gli sta succedendo davanti agli occhi. O meglio, lo vedono, ma non lo credono possibile.  
-”Me ne vado. La tua vodka non mi farà dormire stanotte”. 
-”Vattene, Artyom, vattene. Fuori da casa mia. Ti caccio”. 

L'enorme complesso di appartamenti si erge alle mie spalle, grigio, freddo, spento. Non c’è luce, non c’è rumore. È così silenzioso che sembra un grosso mostro dormiente, uno di quelle storie antiche che mi raccontava mio nonno. Il piccolo marciapiede in cemento è un pò ghiacciato a causa delle nevicate dell’ultima settimana, e tutto attorno a me è bianco. Grossi rettangoli scuri che sembrano essere sbocciati dal terreno attraversando il soffice manto nevoso, mostri che hanno inglobato tutta la popolazione di San Pietroburgo. Cammino incerto nella notte scura, con le mani infilate nelle tasche del giaccone. Il mio vecchio colbacco mi copre la testa fino alle orecchie, ma non il naso, che rimane esposto al gelo. Ogni respiro genera una piccola nuvoletta argentata davanti a me, e ad ogni respiro è come se migliaia di invisibili puntine si infilassero nel mio collo. Provo a incastrare la bocca sotto al colletto del giaccone, ma non aiuta molto. La strada verso casa mia è abbastanza lunga, ci vuole sempre una mezz’ora quando torno ubriaco. Cerco di non pensare troppo a quello che sta succedendo, non ne vale la pena di stare male per una cosa che non posso evitare. Io che quasi non potrei guidare un'auto, mi preoccupo di salvare l’intera nazione. I grossi rettangoli morti giacciono ai lati della strada costanti, ritmici. Dentro di loro migliaia di famiglie, migliaia di persone che dormono nei loro letti. Tra poco sarò anch’io uno di loro. E infatti il tempo vola quando ti preoccupi per qualcosa che non puoi controllare, e senza accorgermene mi trovo davanti al portone di casa. Mi faccio strada attraverso la prima grossa porta, e poi attraverso una seconda. Le porte qui non le chiude mai nessuno, anche perché di chiavi non se ne vedono. Salgo gli scalini per arrivare al secondo piano, e mi sembra che dentro all'androne delle scale sia addirittura più freddo che non per strada. La porta di casa mia mi attende, solida e stoica, divide quello che è mio dal resto del mondo. Pensandoci bene, è l’elemento più importante per la mia protezione. Chissene frega. Le dò un gran calcione per richiuderla, e il botto rimbomba lungo il dedalo di corridoi di cemento gelido. Il riscaldamento non va e la mia stanzetta è freddissima. Accendo il gas e riempio una teiera d’acqua da scaldare. In pochi minuti il tè è pronto e lo sorseggio mentre guardo fuori dalla finestra. Illuminati dai lampioni, piccoli fiocchi bianchi danzano leggiadri, trasportati dal lieve vento gelido. Ha ricominciato a nevicare. Sorseggiando quel caldo ben di dio riprendo piano piano sensibilità al naso e alle mani, mentre penso a tutto lo schifoso lavoro da spalaneve che mi aspetta domattina. Non c’è cosa più piacevole che riposare al calduccio sotto le coperte.  

Bom bom bom. Sento bussare alla mia porta. “Artyom vieni fuori! È ora di lavorare. Non costringermi ad entrare”.  
-”Ma vaffanculo”. È la voce di Pyotr, il merda del sovcon che gestisce il condominio. Secondo lui i piloti e gli autisti di autobus devono spalare la neve perchè per guidare basta stare seduti, e quindi eccoci in fila, 5 idioti infreddoliti con i badili in mano, disposti dal portone d’ingresso fino quasi in strada a spalare neve.  
“Bella giornata, è Yosha?” faccio all’unica persona del gruppo che conosco, oltre a Pyotr ovviamente ma lui è già tornato a letto.  
-”Taci, per piacere. Com'è che ti chiamavi?” 
-”Artyom.” 
-”Ecco sì. Artyom, taci per piacere”.  
-Che antipatico. “Yosha in sanscrito vuol dire donna” farfuglio sottovoce in tutta risposta.  
-”Che hai detto?” Mi fa lui. 
-”Niente, niente. Scusami. Solo che il tuo nome vuol dire donna in sanscrito”. 
-”Artyom. Vaffanculo".

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