La casa abbandonata
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La casa abbandonata
Tra i prati verdeggianti e i campi di grano, a pochi frettolosi passi dal cancello di casa tua, si trova una grande casa diroccata. È molto vecchia, e nessuno ormai si ricorda più chi ci abitasse. Passando noncurante magari la avrai vista più e più volte, senza darci più di troppo peso. Quello che rimane dell’antica sfarzosità dell'edificio è uno scheletro di mattoni. Non ha più le finestre, ed il tetto è crollato sotto il peso del tempo, ma è grande e per superarla a piedi bisogna camminare con passo spedito per un paio di minuti. È così grande e ha così tanti piani che quasi tutti quelli che ci sfilano davanti pensano sia davvero un gran peccato che una casa che doveva essere così maestosa e bella sia oggi abbandonata e distrutta. Eppure una volta non era così. Nel piccolo municipio del tuo paesino è pieno di foto antiche appese alle pareti che nessuno ormai guarda più, ingiallite e sbiadite, e tra le tante foto di campi, di contadini, di mercati di animali, in un angolino, spicca impolverata una foto di una famiglia numerosa e ben vestita in posa davanti a quella vecchia casa. Maestosa e ricchissima, con grandi aiuole di rose, una fontana zampillante, e tutti nella foto sorridono al fotografo mentre danno le spalle a quella bellissima villetta. Eppure, guardando con attenzione, un piccolo dettaglio vi si nasconde, come impaurito. In una delle piccole finestre dei piani più alti, proprio sotto il tetto, c’è una macchia che ricorda la forma di un viso. Un volto triste nascosto dalle tende di pizzo bianco. Nessuno ci ha mai dato troppo peso perchè le foto di una volta erano spesso mosse o sfuocate in alcuni punti, e anche perchè la servitù era in costante lavoro in ogni stanza della casa. Il tempo di scatto era di una decina di secondi, e se un uccello o una foglia volava davanti all’obbiettivo non era anomalo che si producessero queste imperfezioni. Eppure sembra proprio un viso. La casa è stata abbandonata pochissimo tempo dopo lo scatto di quella foto, per cause che sono ancora sconosciute. I proprietari sono fuggiti una notte e nessuno di loro è mai più ritornato. I paesani, un pò per paura che i padroni potessero tornare da quella che pensavano fosse un lungo viaggio improvvisato e un pò per scaramanzia, non si erano mai lasciati vincere dalla curiosità di entrare nella casa. Non si poteva, dicevano, e il prete gli dava ragione dicendo che c’era un demonio che vagava di notte per quelle stanze vuote. Diceva che quando calava il sole e l’oscurità avvolgeva quelle stanze, sentiva gli animali fuggire dal giardino, e che dopo pochi anni dalla partenza della famiglia anche le piante hanno cominciato a morire e non crescere più. Secondo il piccolo prete c’era qualcosa che non andava bene lì, qualcosa di maligno da cui bisognava stare alla larga. In quelle stanze buie, illuminate unicamente dalla luce argentea della luna che penetra attraverso le finestre. Il contado liquidava il prete dicendo che faceva bene a dire queste cose, che le case vuote sono pericolose e che se i bambini ci fossero andati a giocare, rischiavano di farsi male su qualche chiodo sporgente o su qualche asse instabile. E quindi tutti provavano davvero poco interesse a quella casa così grande e così vuota. In fin dei conti, tutti avevano i propri doveri da svolgere e questi occupavano gran parte della giornata, alle prime luci dell’alba gli uomini imboccavano le piccole strade sterrate accompagnati dai buoi e le donne mandavano i bambini a scuola e si indaffaravano con le estenuanti e interminabili faccende di casa. Fatto sta che, nonostante le parole del prete, nonostante gli avvertimenti dei genitori e le storie terribili che gli anziani raccontavano per spaventarli, un gruppo di bambini incuriositi dal tabù vollero entrare di nascosto nella casa. Si diceva fossero quattro, o anche cinque, e che datisi appuntamento davanti al campanile all’imbrunire si fossero poi diretti alla vecchia casa. Ridendo, scherzando, giocando e facendo grandi progetti e predizioni sui tesori di dolciumi che avrebbero trovato in questa stanza e sui giocattoli che avrebbero trovato in quell’altra. E con quest’animo divertito ed intrepido, ognuno con un bastone di legno e le tasche piene di sassi, si erano diretti verso un piccolo cancelletto in ferro posto ad un lato del giardino della proprietà. Il piccolo cancello si aprì sfiorandolo, senza sforzi, quasi invitandoli ad entrare, come se un custode fosse rimasto a curarlo ed oliarlo da quella lontana notte in cui la casa si svuotò. I bambini non ci fecero tanto caso ed entrarono spinti dal desiderio di avventura. Avvicinandosi alla casa, sentirono una lieve brezza fresca che spirava da qualche parte, non gli era mai capitato prima. -Forse è proprio per questa brezza che costruirono la casa qui- disse Mario, il più grande tra i bambini, e continuarono. L'eccitazione quando trovarono il grande portone aperto era tangibile, erano così contenti che stesse filando tutto liscio e pregustavano già di giocare con giocattoli magnifici e di riempirsi la pancia con leccornie mai viste prima. Eppure attraversando la soglia la prima grande stanza era vuota. Non c’erano mobili, non c’erano attrezzi n’è specchi ai muri. Solo sul soffitto si intravedevano degli affreschi di angeli e nuvolette, ma era buio e non si capiva cosa stessero facendo. I bambini si spostarono in ognuna di quelle stanze buie del piano terra, correndo sul pavimento di assi e ridendo, facendo rimbombare i propri passi in tutta la casa, in ogni stanza e anfratto, disturbando. Mattia, il più piccolo e pauroso, vedendo che il sole stava fuggendo e che la casa stava immergendosi nell’oscurità volle tornare a casa.
-Andiamo a casa- disse –tanto non c’è niente. Fa buio, andiamo a casa-. Gli altri lo guardarono, convinti che fosse la cosa giusta da fare, anche perché pure loro avevano paura di stare lì, ma quando distolsero lo sguardo e si fissarono negli occhi qualcosa cambiò. Nessuno voleva essere il primo fifone, e quindi nessuno sarebbe ritornato a casa per primo. -Mattia è ovvio che è un fifone: è piccolo!- si dicevano. E nessuno volle uscire da quel grosso portone in legno. Al calare dell’oscurità vagare per quel dedalo di stanze buie era diventato complicato, e bisognava stare attenti e camminare piano, al centro dei saloni, altrimenti si poteva sbattere da qualche parte. Sopra di loro, in ogni stanza che attraversavano, qualcosa dall’alto li guardava. Una schiera di angeli, diavoli, contadini abitavano i soffitti di quella vecchia villa, disegnati da qualcuno tanti anni prima. Ecco che, ai piani di sopra, al centro di una stanza in un ala della casa, c’era qualcosa. -è un asta- disse Davide -è un attaccapanni- lo corresse Mario. Tutti incuriositi, vi si avvicinarono, era il primo tesoro trovato in quella casa e bisognava studiarlo. Il piccolo Mattia, attaccato con le mani alla maglietta di uno dei grandi, li seguiva controvoglia dentro alla stanza tenendo la testa bassa. Non poteva più uscire senza di loro, aveva troppa paura di ripercorrere quelle stanze lugubri. Il fato volle che Marco, per dimostrare di non aver paura di nulla, tirò una bastonata all’attaccapanni, rompendolo a metà con un colpo solo. Questo cadde rovinando sul pavimento e producendo un botto che si sentì fino in paese. -perchè ha fatto così? È solo caduto non doveva fare tutto questo rumore- dissero. Eppure accadde. E accadde anche di sentire qualcosa. - hai sentito?- Paolo –stai zitto, non ho sentito nulla- gli risposero sottovoce. Mattia, stringendo sempre più la maglietta di Paolo, disse –sta piangendo-.
-chi sta piangendo? Non c’è nessun’altro qui-.
-è disopra- riprese lui – e sta piangendo, la sento-.
-andiamo via- disse Davide impaurito dalle parole di Mattia, eppure non appena si scambiarono gli sguardi, di nuovo nessuno voleva andare via per primo.
-Andiamo a vedere, fifoni- li incitò Marco. E allora tutti, contro voglia (Marco compreso), andarono a vedere. L'ultimo piano, sopra di loro, era completamente di legno, e il tetto crollato in alcuni punti permetteva alla luce della luna di entrare. La scalinata venne conquistata dai bambini in pochi e fieri balzi. Entrando gagliardi nella porticina posta alla fine dei gradini, sentirono nuovamente dei rumori –qualcuno sta piangendo, è proprio qui dentro-. Da una delle stanze immerse nell’oscurità provenivano dei lamenti terribili, un pianto soffocato che si faceva sempre più forte e straziante. La voce si faceva sempre più forte. I bambini, impauriti, si portarono davanti alla porta scardinata della stanza per metà soffocata dal buio e dissero –chi sei? Perchè piangi? - e la voce si fermò. Il silenzio era completo, e i bambini stavano immobili cercando di capire cosa stesse succedendo, fissando il buio. Mattia aveva la testa schiacciata contro la maglietta di Paolo. Sentirono dei rumori, lievi e lenti, che si avvicinavano a loro. Erano dei passi. Pesantissimi e strani, sbilenchi, scomposti. Un gorgoglio si pronunciò dalla stanza, come il grido di una persona che affoga. Improvvisamente, davanti a loro comparve. Era una figura enorme, vestita con un lungo mantello nero. Protese le mani scheletriche con le dita disgustosamente lunghe verso i bambini, e il viso coperto dal cappuccio e nascosto dall’oscurità si palesò alla fievole luce della luna che filtrava dal soffitto bucato. Era una vecchia mostruosa. Senza occhi. Pronuncio con una voce terribile –Occhi, i miei occhi! Mi prendo i vostri occhi. - I bambini fuggirono verso le scale a rotta di collo, senza badare gli uni agli altri. Mentre i grandi scattavano, scivolavano, rotolavano sulle scale, il più piccolo cadde e venne lasciato lì. Piangendo, provò a scendere anche lui la grande scalinata, ma i gradini così alti erano difficili da percorrere. Dietro di lui, la vecchia, con una mano posata sullo corrimano, scendeva curva le scale. L'altra mano si allungava verso il bambino, sfiorando la sua giacchetta con le unghie lunghe e bianche. Questo inciampò, rovinando giù per le scale, il che gli dette un certo vantaggio su quella vecchia mostruosa, e riprese subito a scendere. La vecchia, arrabbiata, si alzò il mantello con le mani e allungo le gambe lunghe in modo bizzarro e decrepite sugli scalini, passandone tre per volta. In pochi balzi si fece sul bambino e allungando ancora le mani gli prese una spalla. Questo piangendo senza freni non capiva più niente. Solo il terrore regnava nei suoi pensieri. Tra le lacrime gridò - Aiuto! dove siete? Aiuto! - ai bambini più grandi, ma questi erano già in giardino e stavano correndo verso il cancelletto. Trovandolo chiuso e arrugginito, lo saltarono o si incastrarono attraverso le sbarre rotte. Mattia sentiva la presa gelida delle dita quasi ferrose di quella vecchia mostruosa e spinto dal terrore si infilò attraverso le sbarre del corrimano e saltò, candendo sul piano inferiore. Con un braccio dolente e la maglietta strappata, piangendo, continuò a scendere gli scalini. Il grande portone era ormai vicino, e il bambino percorse correndo le grandi stanze vuote e diroccate, sentendo dietro di sè i poderosi e pesanti passi di quella strega. Attraversato l’uscio corse attraverso il giardino dirigendosi verso il cancelletto, e vide che gli altri lo stavano aspettando lì e lo aiutarono a saltare. Dalle grandi e vuote stanze della casa si senti un forte vociare, e la strega disse con voce rauca e cadenza lenta – nelle stanze vuote di casa tua, mi troverai ancora. Al buio, negli anfratti. Io sono sempre lì. China nell’angolo, a piangere. Aspetto te per prenderti.-
I ragazzi fuggirono verso il paese e davanti alla chiesa una certa folla animata lì attendeva. C'era il parroco che diceva senza sosta l’Ave Maria, e i loro genitori che gridavano i loro nomi e correvano di qua e di là tra le case e i campi. Vedendoli arrivare gli corsero incontro, sollevati, e riempiendoli di ceffoni e tirate d’orecchi li riportarono a casa.