la data di scadenza degli assiomi cosmici
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la data di scadenza degli assiomi cosmici
Cammino lungo via verdi, sotto un viale alberato, con le mani nelle tasche quasi cercando di nascondermi. Non mi piacciono le persone. Il cielo è grigio ed ho la sensazione che tra poco pioverà. È una sensazione strana, arcaica, non è spiegabile se non che con l’intuito. Ma è una sensazione constante, che mi sta sempre addosso da quando ho memoria. Con gli anni ho cominciato a pensare che sia causata dallo strato di smog che troneggia sopra la città mentre i fiochi raggi solari cercano impotenti di penetrarlo. Cerco di evitare gli sguardi di chi mi circonda, anche se la realtà dei fatti è che non gliene frega niente di chi io sia o dove stia andando, però nonostante io sia conscio di questo provo comunque a nascondermi. Continuando a camminare arrivo nel centro città, nella zona storica, e camminando sotto l’ombra delle statue poste lungo il fossato fisso la gente in coda al semaforo, con i motori accesi mentre impreca contro l’auto che gli sta davanti, perché è la causa del traffico. La realtà è gelida e amara come ogni faccia che mi passa a fianco, senza badare a me come essere vivente. Sembra quasi che siano ammaliati da loro stessi, come se tutti avessero degli scopi così fantastici e dei doveri così importanti che incrociare per caso una personcina come me non crei in loro nessun interesse. Alcuni, con il capo chino a fissare il telefono, non si rendono nemmeno conto di dove sono, potrei non avere alcun volto e loro non se ne accorgerebbero. Si limitano a fare due movimenti: camminare e strisciare il dito. Non provano interesse per ciò che non è colorato, né per ciò che è tangibile, in quanto è una caratteristica priva di significato ormai. Loro hanno già tutto ciò che gli serve a portata di mano, immediatamente, non devono sforzarsi per ottenerlo. Siamo così assuefatti dalla morte in ogni sua forma che la vita perde di importanza, soprattutto quella altrui. Ciò che conta davvero è così banale che tutti riescono a interpretarlo, i soldi. La morale è morta con la nascita della relatività, e il concetto di bene e male perdono di significato senza la paura di una punizione divina, cieca ed infallibile, che ti stana ovunque tu ti nasconda, ti trascina all’inferno dove arderai per l’eternità. Invece la punizione non esiste più, come non esiste più il perdono e la bontà. È tutto svanito, come polvere al vento, dopo migliaia di anni di imperio divino ora tocca all’uomo comandare. Scrive la legge con le sue mani e la applica con le sue armi. Concedere punizioni è diventato tanto semplice quanto semplice è commettere i reati. Guardo una coppia di genitori che scivola tra le persone, tenendo per mano il loro unico figlio. Quello è il primo bambino che vedo da un bel po' di tempo. La madre prende una strada, e il padre un'altra. Il bambino, sbigottito, non ha altra scelta che venire trascinato per il braccio dalla donna attraverso un gruppo di persone ignare della sua esistenza. Guardare questa scena non mi da alcuna emozione, e continuo a camminare verso il porticato della piazza centrale, dove ogni spazio è occupato da sedie e tavolini dei bar, e i camerieri devono fare le piroette tra il flusso di persone per portare gli alcolici dal bancone ai clienti. Li guardo, ed ognuno è uguale, come se fossero copie di uno stesso libro, ognuna rovinata da qualcosa di diverso. Alcuni continuano a parlare senza mai fermarsi, altri guardano il loro telefono con grande impegno. Viene da chiedersi se chi parla conosca la voce di chi lo ascolta, e chi guarda il telefono sappia di che colore ha gli occhi chi gli si siede davanti. La realtà è che non me ne frega niente, e continuo a camminare. Tutte le persone attorno a me sono accompagnate dallo stesso profumo acre e chimico, e da tutti i tavoli si erge lo stesso discorso monotono, come se una grande centrale avesse il potere di decidere di cosa far parlare le persone. Ad un tratto, una terribile sensazione mi trafigge alle spalle, così intensa ed improvvisa da farmi fermare in piedi, con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Mi giro di scatto alla ricerca di qualche risposta, qualcuno da incolpare tra la folla, e sento una voce dire verso di me “per caso hai degli spicci?”. È un tizio, steso per terra, sporco e lurido, che si sorregge su un braccio come se fosse steso su un triclinio a ingurgitare uva. Allunga l’altra mano verso di me, come se fosse mio dovere riempirla di tanto oro quanto peso. Lo guardo e gli dico “non ho spicci, né monete e neanche bottoni”. Lui impassibile mi guarda, ritrae la mano, e senza scostarsi dalla sua posa vittoriosa mi dice “vabbè, ti auguro buona fortuna”. Al che tra me e me penso “chi sei tu per augurare cose a me? Come ti permetti?” ma dalla mia bocca esce uno spontaneo “anche a te” di cortesia, una di quelle cose te ti insegnano da bambino a scuola. Esco dalla folla e mi incammino verso casa. Passando davanti ai giardini pubblici noto dei fiori colorati, non ho proprio idea di come si chiamino, non sono dati che vale la pena memorizzare. Sono disposti a macchie, gialli, rossi, bianchi, tutti immersi nell’erba verde scuro. Il viale coperto di sassolini passa sotto a alberi maestosi, verdi, nelle cui fronde si nascondono uccellini cinguettanti che non riesco minimamente a vedere, tanto meno riconoscere. “chissà se gli avessi dato un bottone, che avrebbe fatto? Me lo avrebbe tirato addosso” e rido facendo il gesto di scansarmi da un bottone invisibile scagliato verso di me. Mentre faccio questa mossa una donna che mi stava passando a fianco mi guarda disgustata, come se le budella mi uscissero dalla bocca. Io mi giro e le grido “le arance signora!” e continuo per la mia strada, conscio che la mia frase diventerà causa di varie elucubrazioni in chi la ha sentita. Ripercorrendo via verdi passo davanti alla casa di mia nonna, e subito penso come fosse passeggiare per questa strada ai suoi tempi, sessant’anni fa. “Magari faceva schifo uguale” mi dico, e me ne vado a casa. Tiro fuori le chiavi per aprire il cancelletto e mi soffermo a guardare il giardino, scarno e coperto unicamente di muschio. Non si può toccare nulla perché “è proprietà condominiale, comune! Qualsiasi modifica va decisa in riunione condominiale!” ma nessuno vuole fare le riunioni condominiali, e quindi rimane com’è. Ancora prima di aprire la porta di casa sento il mio gatto dall’altra parte, che mi aspetta facendo le fusa e rovinando in modo irrimediabile con le unghie qualche mia felpa lasciata nel posto sbagliato. Entro e lo vedo con la coda dritta, “lo so tu cosa vuoi” gli dico, e gli riempio la ciotola di croccantini. Lui si avvicina, come se non gli interessasse, e acquattandosi comincia a mangiare. Gli do una carezza pensando a quanti bottoni servano a lui per essere felice. Forse uno, forse neanche quello. I problemi di un gatto sono ben diversi da quelli di un essere umano, non hanno lo stesso valore. O forse sì? Un gatto che problemi ha? E chissà che problemi ha quel barbone arrogante, magari lui non ha neanche quelli.