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IN FUGA
IN FUGA secondo capitolo

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Publié le 8 mai 2023 Mis à jour le 8 mai 2023 Culture
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IN FUGA secondo capitolo

Cap II


   Nelle tasche non c’era nulla, forse erano cadute in terra, anche se non le vedeva. Lo zio aveva uno di quei portachiavi con catenella e moschettone che era decisamente ingombrante e non poteva essergli sfuggito sul pavimento, anche se i pezzi di vetro della lampada e della vetrina gli rendevano la ricerca difficile. Forse le chiavi erano finite sotto il suo corpo e sarebbe stata una bella fatica spostarlo per prenderle. Improvvisamente si ricordò che lo zio Greg gli aveva sventolato quelle famose carte appena prima che lui lo facesse addormentare e che dunque le chiavi dovevano essere ancora nella serratura del cassetto. Girò intorno alla scrivania e infatti il cassetto era ancora aperto con le chiavi penzolanti. All’interno c’era una cartellina che conteneva alcuni fogli e sulla copertina c’era scritto: Stevie-orfanotrofio. La prese senza neanche aprirla, sapeva di non avere molto tempo e ancora molte cose da fare prima di allontanarsi, sperava per sempre, da quella casa. Sotto la cartellina c’erano un mucchio di banconote, tutte divise per valore e legate ciascuna da un elastico. Non avrebbe saputo dire quanti fossero ma era evidente che si trattava di un mucchio di dollari. E probabilmente erano il frutto delle brutte cose che lo zio gli faceva fare. Steven fu tentato di prendere qualche banconota perché immaginava che gli sarebbe stato indispensabile avere un po’ di soldi per realizzare il suo piano, ma gli riuscì impossibile toccare quel denaro che gli sembrava sporco, cattivo. Aveva di suo 35 dollari e 50, che stava mettendo da parte per comprarsi un computer e per il momento sarebbero bastati. Con la cartellina sotto il braccio fece di corsa le scale ed entrò nella sua cameretta. Era poco più di un ripostiglio con un finestrino che si apriva a pochi centimetri dal soffitto. C’era giusto lo spazio per il suo letto, una piccola scrivania dove faceva i compiti e un armadio con tutta la sua roba, ma non se ne lamentava, lui non si lamentava mai. Mise nello zaino un po’ di biancheria, il suo jeans preferito, qualche maglietta, il giubbetto dei Suns, anche se era troppo caldo per indossarlo in quel periodo. Di corsa prese il suo spazzolino da denti e la sua spazzola, aveva una vera e propria fissazione per i capelli che portava sempre ben pettinati. Le dodici e venti, il tempo volava e tra una mezz’ora i suoi fratellastri sarebbero tornati a casa. C’era poi il pericolo che da un momento all’altro lo zio o la zia si risvegliassero e allora sarebbe stato davvero un guaio. Uscendo dal bagno si affacciò dalle scale dove si intravedeva lo studio e si tranquillizzò un poco vedendo le gambe dello zio ancora distese in terra e un piede della zia che spuntava proprio dall’uscio. Prese la sedia dalla sua scrivania e la mise di fronte all’armadio per accedere all’ultimo ripiano dove, nascosto in una scatola di scarpe da ginnastica, c’era il suo barattolo. E dentro tutti i suoi tesori che allo stato erano: 35 dollari in banconote e 50 centesimi di monete, tre figurine di baseball dell’ultima raccolta All Fame della Playcards che sapeva essere molto difficili da trovare, il suo vecchio orologio con Willy il Coiote che non funzionava più, un biglietto omaggio per l’unica partita di basket che avesse visto dal vivo e la piccola catenina d’oro con l’immagine della Madonna che aveva al collo sin da quando era nato e che evitava di portare ancora da quando a scuola un bambino più grande aveva tentato di strappargliela via. Lo scatolo delle scarpe però era infilato più all’interno di quanto ricordasse di averlo spinto l’ultima volta e dovette fare una vera e propria acrobazia per tirarlo giù. Stava quasi per metterlo nello zainetto senza controllarlo quando pensò che avrebbe dovuto avere con sé più del dollaro e quaranta che attualmente gli tintinnava nella tasca per allontanarsi in fretta da quei paraggi e aprì il barattolo. C’erano solo 5 dollari e 50 centesimi e mancava la sua collanina d’oro. Una lacrima di rabbia gli si formò all’angolo dell’occhio destro ma l’asciugò con la mano e si diresse in camera di Mike. Sapeva dove guardare. Sbirciò brevemente dalle finestre che davano sulla strada per rassicurarsi che non stesse rientrando proprio in quel momento, e alzò la parte superiore del bracciolo del divano che stava di fianco alla scrivania. In quel posto, che Mike credeva segreto ma che era tanto stupido da lasciare spesso aperto, il fratellastro teneva le sue riviste con le donne nude e una cassetta di metallo, che una volta conteneva dei biscotti al burro, in cui riponeva le sue cose preziose. Rimase a bocca aperta quando ne riversò il contenuto sul divano perché conteneva certamente più di mille dollari, anche se lui non si mise certamente a contarli. C’erano diverse altre cose, alcune sigarette e un accendino e soprattutto c’era la sua catenina d’oro. Steven la prese e la baciò prima di mettersela al collo e poi prese dal mucchio i trenta dollari che Mike gli aveva sottratto. Poi ci pensò e prese altri cento dollari, in banconote da 10 e 20, così giusto per insegnargli che il crimine non paga. Non rimise neanche a posto la scatola e si allontanò di corsa.
Aveva immaginato un momento come quello diverse volte, ma non aveva mai fatto davvero un piano per attuarlo. Quello che però capiva bene era che doveva allontanarsi prima possibile da quel posto e da quella città e mettere la maggior distanza possibile tra sé e da quella famiglia che non lo aveva mai amato. Cominciava a sentire un vago dolore alla testa e sapeva che nelle prossime ore quella sensazione sarebbe aumentata anche se aveva imparato a dosare al meglio le varie spinte. Con la zia per esempio aveva spinto proprio pochissimo e non ne avrebbe riportato alcuna conseguenza. Con lo zio la rabbia lo aveva fatto andare un po’ più pesante e lo avrebbe di sicuro pagato. Corse fuori dalla casa e non si voltò indietro neanche una volta, il suo proposito era allontanarsi di qualche isolato e prendere il primo autobus che passava, Poi avrebbe scelto una linea che facesse sosta alla Stazione degli autobus a lunga percorrenza appena fuori città. Da lì avrebbe scelto una destinazione che lo portasse più vicino alla sua metà. Non sapeva neanche quale direzione prendere, ma nell’autobus locale avrebbe letto la cartellina sottratta allo zio e avrebbe saputo dove andare.


       «Ma tu li leggi mai i quotidiani Luke? Ma sai almeno che cosa sono stronzetto? Sono quei giornali dove non ci sono le foto delle donne nude.»
Una risata tardiva dei suoi scagnozzi fece arrabbiare Ridley anche con loro.
«Quello che tu e questi altri tre cretini alle mie spalle non sapete è che in quei fogli ci sono le cose più preziose del mondo: le informazioni. E tu sei ancora vivo grazie a quelle informazioni. Nella cronaca dello Stato ho letto una notizia assai curiosa del titolare di una piccola agenzia di scommesse di una città a circa 70 miglia da qui che ha intentato una causa alla propria assicurazione che non vuole risarcirlo per una rapina subita sei mesi fa. Nonostante ci fosse una regolare polizza di copertura l’Assicurazione si rifiuta di pagare perché è sicura che si tratti di un tentativo di truffa. Il titolare dell’agenzia infatti sostiene di essere stato rapinato da un bambino e da un uomo adulto che appena entrati nel locale hanno fatto addormentare tutti i presenti e preso dai cassetti tutti i contanti disponibili. Sembra una grande stronzata a leggerla così, come sembra una grande stronzata il tuo racconto, ma quando due storie così assurde raccontano la stessa cosa, qualche dubbio mi viene.»
L’uomo legato adesso annuiva così forte che quella strana bava rossastra formata dall’acqua buttatagli in faccia, dal sudore copioso della paura e dal sangue che gli scendeva dal naso e dal labbro si sparse a diversi metri da lui. E una goccia di quella mistura per sua sfortuna colpì il bavero della giacca del suo aguzzino.
Il gangster guardò con profondo disgusto il piccolo alone che si andava formando mentre il tessuto assorbiva quel liquido. Si tolse la giacca facendo attenzione a non toccare con le mani quel piccolo cerchietto bagnato e si avvicinò a Luke che adesso lo guardava terrorizzato. Ridley gli passò il tessuto di quello che era stato un costosissimo completo sul viso asciugandolo ruvidamente e provocandogli un bruciore insopportabile a causa dei tagli e degli ematomi subiti nel pestaggio. Ora la giacca era veramente inservibile. Ridley non portava mai armi con sé, non ne aveva bisogno perché non girava mai senza la scorta di alcuni uomini e poi perché i vestiti non gli calzavano come voleva con foderi e armi ingombranti.
«Vedi Luke? Uno dei miei migliori completi è da buttare nel cesso ma io sono generoso, lo sai e nemmeno te lo metto in conto. Ora però fa attenzione e respira piano perché questa cravatta viene da Napoli e se me la macchi ti ci faccio andare a nuoto a ricomprarla. Ascoltami invece bene e rispondimi solo annuendo: saresti capace di descrivere quel ragazzino o l’adulto che era con lui? O ti viene in mente qualche altro particolare che potrebbe aiutarmi a identificarli?»
Ridley non ebbe neanche bisogno di aspettare il cenno di Luke perché vide nei suoi occhi, anzi nell’unico rimasto integro, accendersi una luce di speranza che brillò in quel volto martoriato come una lucciola d’agosto in una notte senza luna.
Il logo della scuola, impresso sullo zainetto di quel bambino gli era apparso nella disperazione della sua mente come un flash. Annuiva senza riuscire a smettere, e anche quando Ridley dopo un paio di minuti era andato via non riusciva a smettere.
«Va bene -disse il gangster- adesso questi gentiluomini che sono con me si prenderanno cura di te. Ti rimetteranno un po’ in sesto e nel pomeriggio faremo due chiacchiere. Se davvero potrai aiutarmi vedrai che una soluzione la troviamo, ma se mi stai facendo perdere altro tempo mi prenderò personalmente cura di te. Ti spezzerò le ossa una ad una partendo dalle dita dei piedi e risalendo talmente lentamente che quando alzerò il martello per fracassarti il cranio mi ringrazierai con tutto te stesso.»


Marie Anne era consapevole di essere molto attraente e da anni oramai detestava quel suo aspetto fisico che le aveva creato solo problemi.  Aveva ereditato la sua figura slanciata e naturalmente aggraziata dalla madre e l’incarnato chiaro dal padre Hans Foster, un emigrante tedesco venuto in America giovanissimo e poverissimo a cercare fortuna. Da lui aveva anche ereditato i capelli biondo miele e gli occhi azzurri venati di pagliuzze grigie che tutte le amiche le invidiavano. Dalla nonna materna aveva invece ereditato il ‘dono’ che in realtà, fino a quel momento della sua sgangherata vita, non gli era servito a molto. Era stata per tre anni consecutivi la ‘reginetta’ del ballo scolastico e aveva vinto alcuni dei concorsi locali di bellezza a cui aveva partecipato più che altro per accontentare i genitori che erano orgogliosi della sua bellezza. Quel mondo però non le interessava minimamente: lei adorava la biologia. Avrebbe studiato medicina, aveva detto un giorno al padre appena finito la scuola primaria, a 10 anni, e non aveva mai cambiato idea. E da quel momento i suoi genitori aveva cominciato a risparmiare ogni dollaro per poterla mandare in un buon college. Poi si sarebbe specializzata in biologia.  E se il destino non le si fosse messo per traverso era sicura che ce l’avrebbe fatta.
«Mari –la chiamava così Pete, con l’accento sulla i- Lo so che sei stanca e due turni consecutivi sono duri ma c’è gente in sala che aspetta».
«Hai ragione capo, ero soprappensiero, ma recupero subito», afferrando uno dei foglietti con le ordinazioni che si erano accumulati dinanzi a lei.  Alla fine del turno si disse che avrebbe ricordato di nuovo al capo che ancora un paio di giorni e sarebbe andata via, per cui era il caso che si desse da fare per trovare un sostituto. Era stata chiara sin dall’inizio sul tempo della sua permanenza nel locale, anche se ogni volta che ne avevano parlato Pete l’aveva invitata a restare ancora, proponendole persino un aumento di stipendio. Era un brav’uomo e un ottimo principale ma non poteva sapere che non erano i guadagni che lei cercava da nove anni oramai. Ogni città in cui si fermava era semplicemente una tappa, un luogo da esplorare in lungo e in largo, per quanto si potesse fare, alla ricerca di suo figlio. Il suo modus operandi era sempre lo stesso: appena arrivava in una nuova città si procurava la cartina stradale più dettagliata possibile e spendeva tutto il tempo che non passava lavorando a esplorare le scuole, i parchi pubblici, le sale cinematografiche in cui proiettavano film per bambini, insomma tutti i posti in cui poteva trovarsi suo figlio o anche solo esserci stato. Non ne conosceva nemmeno l’aspetto fisico, anche se la sua immaginazione ne aveva creato uno plausibile, però sapeva, ne era sicura anzi, che se fosse arrivata abbastanza vicina ad un posto dove lui si trovava, o anche dove era stato una volta, lo avrebbe subito percepito. Forse sotto forma di odore o semplicemente come una sensazione, ma sarebbe accaduto. Come pure non dubitava che le città che aveva scelto ad occhi chiusi lasciandosi guidare solo dal suo istinto fossero giuste e che in una di quelle, tra le migliaia di città americane fosse quella in cui viveva Steven. Il nome era riuscito a darglielo lei e al primo istituto in cui era stato mandato, tra le pochissime informazioni avute, avevano confermato che lo aveva mantenuto. Se fosse stata ancora viva sua madre o sua nonna avrebbe chiesto il loro aiuto e magari insieme sarebbero state capaci di sentirlo con maggior precisione, ma con i se e con i ma –come le ripeteva sempre suo padre- non si va da nessuna parte. Si accorgeva vagamente che stava lavorando e anzi era sicura di stare eseguendo le ordinazioni in maniera corretta perché Pete ritirava i piatti che preparava senza muoverle alcun appunto, anche se continuava a far andare liberamente il suo pensiero. La sua prossima tappa sarebbe stata Siracuse, in Kansas e come sempre avrebbe cominciato ad esplorare le scuole. Si sarebbe avvicinata quanto più poteva all’edificio e si sarebbe fermata a guardarlo cercando di estendere il suo pensiero fino quasi a coprire quella struttura. Dopo pochi minuti riusciva ad entrare in una specie di trance per cui si preoccupava sempre di trovare un posto in cui sedersi. Un paio di volte, all’ inizio era caduta in terra. Le sembrava che dalla sua testa uscissero come una miriade di filamenti che frugavano l’oggetto della sua ricerca fino a quando poi da sole si ritiravano e lei tornava pienamente cosciente. E, purtroppo finora, sicura che in quel posto il suo bambino non ci fosse mai stato. Quella ricerca non durava che pochi minuti e lei aveva notato che il tempo necessario dipendeva essenzialmente dalla grandezza del luogo che esplorava, ma quell’attività le costava un grande dispendio di energia per cui non riusciva a farne che quattro o cinque in un giorno, o al massimo una decina se cercava in luoghi di piccole dimensioni e poi si sentiva talmente stremata che doveva smettere. Non dubitava mai però dell’efficacia del suo metodo e nemmeno della scelta di quella specie di itinerario  tracciato sette anni prima. Ed era più che sicura che una delle città evidenziate sulla sua mappa fosse quella giusta e che prima o poi avrebbe trovato quella in cui viveva Steven. Lei aveva il ‘dono’, così le disse sua madre.
Era stata una splendida festa di compleanno. Marie Anne sapeva che i suoi genitori avevano una condizione economica appena dignitosa, ma lei era la loro unica figlia e vivevano unicamente per farla felice. E quella festa ne era stato un magnifico esempio: animatori in casa e nel piccolo giardino esterno, tutto addobbato con palloncini e festoni che inneggiavano ai suoi favolosi 12 anni. C’erano da mangiare le cose più buone del mondo e bibite d’ogni genere. Suo padre aveva persino ingaggiato un venditore di zucchero filato e un gelataio che con i loro carrettini servivano di continuo quelle delizie a tutti gli invitati. C’erano tutti i suoi compagni di classe, le amiche del volley e tutti quelli che conosceva o quasi, una festa da favola. E poi tanti regali. In serata, finita la festa, Marie Anne si era seduta sul divano del salotto a guardare i regali ricevuti che quel pomeriggio aveva avuto appena il tempo di scartare.
«Vengo subito a darvi una mano» disse sentendo che alle sue spalle i genitori si davano da fare per rigovernare il caos pazzesco, festoso residuo di quel pomeriggio.
«Resta dove sei cara che abbiamo quasi finito» La madre anzi smise di darsi da fare e si sedette sul divano accanto a lei.
Non le sfuggì un’occhiata che la madre rivolse a suo padre che infatti si allontanò dal salotto con la scusa. di andare in giardino a fumare una sigaretta.
Ecco, ci siamo, aveva pensato Marie Anne, è il momento delle api e dei fiori, dei discorsi da donna a donna che oramai sarebbero stati oltre che inutili anche abbastanza imbarazzanti.
«Dodici anni –le disse la madre con un sospiro prendendole le mani nelle sue- Sono volati via in un attimo. Ora sei una vera signorina in ogni senso ed è giunto il momento che io ti dica una cosa».
Sua madre in quel momento aveva un buonissimo profumo di arance, come quello che sentiva quando andava nella piccola fattoria di un amico del padre con lui e la mamma ad aiutarlo a raccogliere quei piccoli frutti del colore del sole.
Improvvisamente seppe che la madre non voleva impartirle una lezione di educazione sessuale, sua madre voleva parlarle di un segreto di famiglia, lo percepiva distintamente.
«Prima che cominci voglio chiederti sei ti è mai capitato di provare delle sensazioni strane che non ei riuscita a spiegarti. Non so, magari mentre parli con qualcuno, hai l’impressione di sapere già cosa ti diranno, oppure di indovinare delle cose, insomma cose buffe, strane, cose così».
«A volte si –disse pensosa- Quasi sempre so che domande stanno per farmi i prof., oppure che gusti di gelato sceglieranno le mie amiche, ma forse dipende dal fatto che quelle persone le conosco».
«Forse, ma credo di no. La settimana scorsa ti ho chiesto di mettere a posto la piccola libreria alle spalle della tele. Ricordi? Di togliere tutti i libri e spolverare per bene i ripiani prima di risistemare i volumi».
«Certo che me ne ricordo e poi proprio lì ho trovato il tuo fermaglio».
«Non è andata proprio così. Tu hai prima sistemato la libreria e dopo una mezz’ora ci ho nascosto dietro il mio fermaglio dicendoti che non lo trovavo da giorni e chiedendoti di aiutarmi a cercarlo. Se c’era un posto in cui quel fermaglio non avrebbe potuto trovarsi era proprio dietro quei libri che tu avevi spostato pochi minuti prima. E invece tu sei andata direttamente alla libreria e lo hai trovato».
Marie Anne, che evidentemente aveva ricostruito quell’episodio nella maniera che razionalmente le era sembrata più logica, adesso ricordava perfettamente l’accaduto. Era perplessa.
«Ascolta cara, cosa mi hai detto quando hai scartato il regalo della nonna?»
«Beh, che era incredibile che mi avesse preso proprio il disco che preferisco e del gruppo musicale che amo di più».
«Hai mai detto alla nonna di questa tua preferenza?»
Ridendo: «Ma’, figurati se mi metto a parlare di metal con la nonna».
«lo hai mai detto a me o a tuo padre?»
«No, non credo», disse farfugliando mentre sentiva come una luce liquida inondarle la mente. «Allora anche la nonna…»
«Si amore anche lei ha il ‘dono’, così lo chiamiamo in famiglia. E anche io un po’, ma proprio poco poco. E anche tu, come vedi. Non si tratta di nulla di veramente fenomenale, ma lo abbiamo».
«Ma io cosa posso fare allora?»
«Non lo so amore, ciascuno di noi sviluppa alcune particolari capacità e credo che lo scoprirai mano a mano crescendo. Volevo dirtelo così che tu non ti spaventassi quando te ne saresti accorta».
«Spaventarmi? Ma è come un superpotere, un vero sballo, quando lo saprà Cindy impazzirà».
«Ascolta tesoro, di queste capacità noi non ne abbiamo mai fatto parola con nessuno. Intanto come vedrai non sono poi questi grandi ‘superpoteri’ e poi perché abbiamo sempre pensato che per vivere tranquilli fosse indispensabile che questa cosa non si sapesse all’esterno. Sono sicura che in caso contrario diventeremo in breve tempo come delle cavie di laboratorio. È meglio allora che nessuno sappia del ‘dono’».
«Nemmeno papà?»
«Certo che papà lo sa, io e lui siamo una cosa sola. Forse però adesso è meglio che vai a riposarti e ne parliamo ancora domani, se vuoi».
«Mamma l’ultima cosa, per ora –disse sorridendo- ma allora la nonna legge nel pensiero? E che altro sa fare?»
«Un po’ si, e fa addormentare le persone».
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