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Alfonso Scariot

Alfonso Scariot

Publié le 6 mai 2024 Mis à jour le 14 sept. 2024 Aventure
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Alfonso Scariot

In nome di San Giorgio

Il ripetitivo suono degli zoccoli che calpestano l’antica strada risuona per tutta la lunghezza della stretta valle. Il verde degli alberi che si inerpicano lungo gli scoscesi pendii ai lati del letto d'erba verde chiaro che compone il fondo della valle stacca in modo netto quest’ultima dall’azzurro intenso del cielo, macchiato di bianco da qualche sporadica nuvola. Il leggero e costante fruscio dell'unico ruscello che scorre nel cuore della valle, alimentato dalle cascate tuonanti dagli alti pendii che fanno sporadicamente capolino tra la fitta vegetazione della foresta accompagna il canto solitario di un usignolo. Un placido vento attraversa la valle portando l’aria fresca dalle erte montagne innevate verso la pianura.  

“Mio caro Fener, abbiamo il vento contro” mormora Scariot mentre, puntandosi sulla sella di cuoio, stende la mano per carezzare il collo della sua cavalcatura. La strada che ha imboccato, a detta del prete del piccolo villaggio che giace all’ingresso della valle, dovrebbe portarlo fino all’altezza della neve che si scoglie sul collo della montagna, in attesa del ritorno del suo inverno.  

Alfonso Scariot è un giovane capitano di ventura, il cui esercito si è diretto verso Firenze per prendere parte come mercenari alla lotta dei guelfi contro i ghibellini. Lui è stato degradato dalla sua carica di condottiero a causa della rivalità tra la corte Medicea e la famiglia Scariot, la quale non nasconde che il Papa Giuliano de’ Medici abusa dell’ottusità della chiesa, indugiando in tremendi peccati capitali senza neanche sforzarsi di nasconderlo.  

Il cavallo si muove a passo d’uomo: chi non ha meta non sente fretta. Un improvviso boato mette in fuga i pochi volatili appollaiati sui rami degli alberi della valle e rende nervoso il cavallo, che il cavaliere riesce a calmare solo dopo un gran lavoro di redini. “È il suono di una campana, ma è così intenso che sembra di starci sotto!”. Oltre il ruscello, ed oltre il letto erboso della valle, sulla guancia del versante destro della montagna, la punta del tetto di un campanile riesce a malapena a fare capolino, nascosta dai grossi pini e abeti che dominano incontrastati il fianco ripido della montagna.

“E così eccola, la chiesa di San Giorgio, l’unica chiesa dedicata a suo nome. È lì che il malingo, indignato per le eroiche gesta del Santo contro il suo emissario, ha deciso di ripresentare la sua irabonda natura”.  

Il prete gli aveva infatti raccontato dei grandi pericoli che giacciono in agguato in quella valle per chi va alla ricerca di ciò che non ha perduto: “Esiste una chiesa, caro cavaliere, la cui prima pietra è stata posata molti secoli fa da una congrega di frati Francescani, di cui oggi rimangono solo poche memorie tra i più anziani. Si di dice che un enorme male sia stato evocato all’altare di quella chiesa”. Le parole pronunciate dal prete del villaggio si rincorrono nella mente del cavaliere, mentre si fa il segno della croce “e si dice che non sia più permesso, a chi segue il cammino di Cristo, di metterci piede”. È ormai nota in tutti i villaggi vicini come la chiesa dei malcapitati, che si mostra unicamente a chi affronta il suo cammino in solitudine, e cercando riparo al suo interno non riesce più a far ritorno alla luce del sole.

“Prima che Santo” rispose Alfonso al prete “San Giorgio era un uomo, proprio come lo sono io. Sono sicuro che anche se fallirò il mio intento di liberare la chiesa, la dimora del Signore, dal maligno San Pietro mi aprirà i cancelli per raggiungere le grazie del nostro Signore.” 

“Se è questo il tuo volere, va con Dio” gli rispose il prete facendogli cenno di chinare il capo per ricevere la benedizione per i suoi intenti.  

 

Il cammino pareva essere così breve dal limitare del villaggio, eppure ora sembrava richiedere più del previsto, come se ad ogni ansa del ruscello la strada si dilatasse sempre più e la valle crescesse in lunghezza e le montagne in altezza. Ormai il sole era ben lungi dallo scaldare quei pochi prati verdeggianti che adornavano santuariamente il cammino del cavaliere. La stretta valle, con le sue ripide pareti, nasconde il sole facendo scendere la tenebra più in fretta del normale.  

Slegato il cavallo, un giaciglio è presto pronto, e mentre il fuoco arde al centro dell’accampamento, illuminando con la sua flebile luce il cavallo legato al terreno e il suo cavaliere seduto su un piccolo stuoino, la cui armatura leggera risplende ogni qualvolta una piccola fiamma osa troppo. Un pezzo di carne infilzato in uno spiedo incastrato nel terreno viene cotto, mentre il cavallo bruca placidamente. La lunga serata è accompagnata dal chiarore della luna piena, i cui bianchi raggi illuminano il prato attorno ad Alfonso. Il cavallo, dopo essersi abbeverato a grandi sorsi dalle fresche acque del ruscello, sta ruminando placidamente. È un magnifico esemplare, alto un metro e settanta al garrese, completamente bianco. È coperto da un drappo azzurro su cui è presente lo stemma bianco della famiglia Scariot. “Lo sappiamo entrambi che non c’è posto per me al castello” disse Alfonso, mentre si passava tra le mani lo spiedo, scaldandosi i piedi contro il fuoco. “Al primogenito tocca l’eredità, e al più piccolo essere prete. A tutti gli altri tocca servire in battaglia, ma io battaglie n-” un fremito gelido scuote Alfonso e la foresta immersa nel buio della notte, facendo correre ovunque le bestie che abitano l’oscurità. Alfonso si alza e mettendo mano alla elsa della spada grida a gran voce “chi và là!”. Ma nulla. Ogni rumore che occupava la valle ora tace all’improvviso. Solo il lento fluire dell’acqua e lo scricchiolio del fuoco rispondono alle sue domande.

Un improvviso vento si alza dalla foresta, che sembra trarre origine dalla vecchia chiesa. Il fruscio degli alberi aumenta d’intensità, diventando un boato assordante. Il rumore assordante sembra trasportare una voce: “hai fatto male”, un suono innaturale eppure comprensibile che con un tono di odio riprende: “nulla evasio est”. Nuvole nere si muovono nel cielo, frapponendosi alla luna con velocità innaturale, soffocando la valle in un'oscurità nera e quasi palpabile. Solo il piccolo fuoco permette al cavaliere di vedere cosa accade giusto qualche passo attorno a lui. Piccole luci bianche compaiono al limitare del buio. Il cavallo si impenna, nitrisce, combattendo con ogni sua forza contro la corda che lo tiene legato in quella valle di morte. gli zoccoli battono il terreno come martelli sull'incudine. Le luci si muovono dall’alto in basso, ritmicamente, a coppie. Si stanno avvicinando al fuoco. Finalmente il cavallo riesce a liberarsi con un forte strattone dal giogo che lo tratteneva, e fugge di gran carriera nitrendo in direzione del villaggio. Alfonso, con la spada sguainata, fissa esterrefatto il mare di luci che lo circonda da ogni lato. Il suo respiro affannoso si condensa contro l’elmo in ferro, mentre il suo cuore batte così forte da poter essere sentito nelle orecchie. Ecco che una coppia di esse si avvicina abbastanza alla tremolante luce delle fiamme per mostrarsi nella loro vera forma. Due grosse zanne bianche riflettono la luce rossa delle braci. Un labbro superiore è teso a mostrare due file di denti. È il naso di un lupo. Alfonso si rende conto di essere circondato da una dozzina di lupi. Mosso dal terrore che permea ogni fibra del suo corpo, il cavaliere grida contro l'orda: “fatevi sotto, servi di Asmodeo!”. La lunga spada riflette la luce del fuoco. Il capobranco si fa avanti ringhiando, 'una bestia magistrale, degno servo del demonio' pensa Alfonso. il cavaliere, sorpreso e incredulo, sa che fuggire è inutile. L'unica via per non venire ucciso è combattere una battaglia in realtà già persa in partenza. Non c'è via di scampo davanti alla potenza del demonio, e Alfonso sta imparando questa lezione a caro prezzo. Un fulmine attraversa il cielo, illuminando con la sua luce blu l'intera vallata e, per un breve istante, il branco di lupi si presenta nella sua terribile maestosità. Ognuno grosso quasi quanto un bue, con zampe enormi e artigli come pugnali che raschiano il terreno. Una luce accecante e un altro boato improvviso e terribile esplode dentro alle orecchie di Alfonso, facendolo cadere atterra e facendogli perdere la spada. Disorientato, prova a rialzarsi e ad aprire gli occhi, ma ogni suo sforzo è inutile. Rimane inerme atterra. L'armatura comincia a pizzicare, a sfregolare, ed un altro boato lo rende sordo.

Quando riesce finalmente ad aprire gli occhi e a riprendersi è mattino. Intontito, si mette a sedere, incredulo di essere tutto d’un pezzo, controllandosi le braccia e le gambe.  

I primi fiochi raggi del sole illuminano le ceneri fumanti del focolare. Una leggera foschia impedisce di vedere a pochi metri oltre l’accampamento. Si notano dei grossi solchi nel terreno, come se una grossa bestia fosse strisciata faticosamente fuori dalla terra, rovesciando grandi zolle fangose, disposte dove la sera prima erano i lupi.  

Alfonso, incredulo, non riesce a capire se la lotta della sera precedente fosse avvenuta per davvero o fosse stata un sogno. Però di Fener non c’è traccia. Il cavaliere si alza e raccoglie la sua spada da terra, marciando faticosamente verso la chiesa dei malcapitati, attraversando a passi pesanti il sentiero nascosto dalla nebbia.

Il limite che separa la vallata dalla foresta sul pendio è netto. Un imponente muraglia di alberi dal grosso fusto bruno e dagli aghi accuminati sembrano voler serrare il passaggio al sentiero. Il cavaliere comincia la scalata, inerpicandosi tra le grosse radici conficcate nel terreno nero, che frana sotto ogni suo passo.  

Dopo varie ore di cammino ecco che si vede un piccolo spiraglio di luce filtrare tra il fitto fogliame. Lo spettacolo che lo attende oltre il confine della foresta è molto diverso da ciò che si aspettava. Una piccola chiesa bianca, con un campanile anch’esso bianco, si erge al centro di un prato d’erba verde chiaro, adornato di piccoli fiori rosa disposti a gruppetti, sparsi qua e là.  

La chiesa, il cui ingresso è preceduto da un porticato a colonne doriche, è disposta in modo che dall’altare si possa vedere la vallata e il villaggio. oltre la foresta la foschia è scomparsa, lsaciando il posto al cielo sereno.  

Alfonso estrae la spada dal suo fodero di cuoio e a grandi falcate si dirige verso l’entrata della chiesa. Il portone è aperto, spalancato. È stata evidentemente abbandonata con grande fretta. Drappi e tonache giacciono stesi lungo la navata e come fagotti sulle panche. Stringendo con entrambe le mani l'elsa della spada Alfonso si spinge attraverso l'uscio, guardingo. Attraversando il porticato sente una sgradevole sensazione, come se un abominio fosse in sua attesa. I suoi passi rimbombano nella struttura, e la sua armatura sbatte contro il suo corpo ad ogni suo passo producendo rumori metallici. Si ferma davanti ad una delle decine di tonache abbandonate a terra. Con la punta della spada la smuove, rendendo evidente che non è vuota ma che c’è qualcosa al suo interno. Un grosso sacco bianco sbuca da sotto al cappuccio: sembra che un qualcosa avvolto da una tela sia stata nascosta al suo interno. Il presentimento della vicinanza del maligno si fa sempre più intenso e vivo. Alzando lo sguardo all’altare, si vede riflesso in una coppa d’oro posta su di esso, e dietro di lui una figura enorme che a fatica si incastra e spinge il suo corpo all’interno della porta della chiesa.

Alfonso si gira di scatto e con orrore prende coscienza della terribile creatura posta dal maligno a guardia di quel luogo. In un istante si rende conto che le tonache non sono mai state abbandonate dai loro proprietari, e che quella in cui ha messo piede non è più una chiesa, ma un cimitero. Davanti a lui, ad un paio di passi dalla punta della sua spada, due grosse zanne coperte di pelo irto e bruno, una serie incalcolabile di occhi neri disposti su una disgustosa testa rotonda e coperta di peli, disgustosamente adornata da due lunghe zanne da cui cola un liquido verdastro. Lunghe zampe bizzarre, pelose e ricurve, che dipartono da un corpo obbrobrioso.  

Asmodeo in persona si presenta davanti ad Alfonso con le sembianze di una gigantesca tarantola. Sopra di essa un rosone in vetro decorato con una rappresentazione di San Giorgio a cavallo mentre impala il drago. L'unico suono che rieccheggia nella chiesa sono i profondi respiri di Alfonso, i movimenti dell’aberrante creatura sembrano non produrre suoni.  

“Ecce alius martyrum” sono le parole che provengono da quel corpo informe, la creatura comunica con una voce sibilante mentre muove i cheliceri posti davanti alla sua bocca bavosa. Alfonso stringe la spada con due mani per non perdere la presa, il terrore folle che annebbia la sua mente non gli permette di pensare. Con una voce fioca e tremolante ripete “Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam”. Indietreggiando a passi indecisi, Alfonso calpesta il morbido corpo morto del frate. Puntellando la spada nella tunica, si piega sulle ginocchia e con un colpo di reni alza le braccia scagliando il cadavere contro la creatura, la quale usa subito le due zampe anteriori per rimuovere la tunica che gli è finita sugli occhi. Alfonso sfrutta questo diversivo per scappare dietro all’altare. L'unica via di fuga è occupata interamente dal corpo di quella mostruosità. Sotto al pallio bianco che copre il marmo dell'altare si nasconde un piccolo cancelletto in ferro nero. Alfonso non sa se sia un'antica via di fuga segreta, ma è conscio che difficilmente quel passaggio lo condurrà in una situazione peggiore rispetto a dove si trova adesso. La creatura si liberata dai resti umani ora sta attraversando la navata velocemente mentre colpisce e rovescia le panche con le lunghe zampe. Con un paio di calci Alfonso rompe i cardini del cancello, che cade lungo quella che sembra essere una profonda scalinata che conduce al grembo oscuro della chiesa. Contemporaneamente il ragno enorme balza con l'intero corpo sopra l’altare, le zampe in tensione posate sui muri, ma non ha ancora visto il piccolo passaggio. Fissa Alfonso, ancora seduto, con le sue schiere di occhi disgustosi, in attesa di un suo minimo movimento per dare inizio all'attacco. Tutto si aspettava, fuorché che Alfonso a saltare contro di lui. In un istante la creatura di discosta e con un secondo balzo la sua preda scompare all’improvviso. La cerca subito con foga, frugando con le zampe il pavimento di marmo e l'altare e scoprendo l’inganno del passaggio. Una furia ceca pervade la disgustosa creatura, che cerca di incastrarsi con tutte le sue forze nella piccola apertura, rompendo la mensa dell’altare. Sta per infilare le lunghe zampe pelose dentro alla catacomba senza via di fuga, quando un fulmine di luce argentata lo colpisce tra gli occhi. La creatura indietreggia, cercando di pulirsi con le zampe da quella cosa, inutilmente.

Una punta di lancia esce lentamente dalle profondità della cripta, al cui collo è legato uno stendardo triangolare rosso. Il guanto in ferro di Alfonso sorregge l’asta, e il cavaliere risale dalle tenebre con rinnovato vigore. La bestia grida “Eques ruber!” ed in preda ad un terrore folle tenta la fuga, ma viene presto raggiunta dal cavaliere che al grido di “Pro Sancto Georgio!” le si fa sotto con foga inseguendola per la navata, maneggiando la reliquia che giaceva nella catacomba, la sacra lancia che San Giorgio usò per sterminare il drago. Il servo di asmodeo si lancia di gran carriera verso il portone della chiesa, ma un brillante fascio di luce proveniente dall'esterno lo colpisce subito prima di raggiungere l’uscio, facendolo cozzare contro le pareti della chiesa. Alfonso non attende altra occasione e conficca la lancia all’interno della creatura per tutta la sua lunghezza. Con un terribile grido, le zampe della bestia scivolano e scorrono disordinate e impazzite, e infine si involgono lungo il corpo schifoso.

La battaglia è finita, il servo di lucifero è stato sconfitto. Il cavaliere estrae la lancia dalla massa disgustosa ma ormai resa inerme, e si dirige fuori dalla chiesa per stendersi ansimante nel prato d’erba verde accanto ai fiori.  

La fine e l'inizio

“Stupido ronzino” dice Alfonso, assestando un leggero ma deciso pugno sulla spalla del suo cavallo “Ti piace scappare, eh?”. Il cavallo nitrisce, si scuote e abbassa la testa. La tela di lino azzurro e bianco che lo copre, sul quale è fissata la sella, è ancora completamente pulita. ”Non dirmi che hai anche la pancia piena!” e mentre dice queste parole da dei lievi buffetti sulla pancia dell’animale, la quale tambureggia con suoni sordi. Il cavallo era fuggito due notti fa, ripercorrendo il sentiero a ritroso fino a raggiungere la piccola chiesa del paesino che riposa all'imbocco della valle. Il prete del paese lo aveva chiuso in uno dei tanti pascoli abbandonati dai contadini in fuga dal demonio, o dalle voci che correvano su di essa. Alfonso, provato dalla battaglia e dalla camminata a piedi, si siede sull'erba del pascolo verde accanto ad un piccolo ruscello cristallino, la cui fonte è sulla montagna, e che placidamente scorre verso il mare. È il ruscello usato dagli animali al pascolo per abbeverarsi. Il cavallo è in piedi al sole, mentre Alfonso si riposa ombreggiato dalle enormi querce e dagli antichi faggi che si impongono nel cielo da oltre la staccionata del pascolo. Piccoli e brevi passi frusciano dietro di lui nell'erba alta. Il cavallo drizza le orecchie, alza la testa e resta immobile. Alfonso ha già la mano sull'elsa della spada quando grida, ancora da seduto: “Spero che tu non sia una bestia, perché per tua sfortuna ho fame”. A queste parole il rumore cessa di colpo. "Forse il servitore di Dio ha una soluzione per questo tuo problema, Cavaliere”. -”Mi piace quello che sento, prete.” gli risponde senza girarsi “Ma non lasciare che la curiosità si trasformi in dubbio”. Senza perdere tempo il prete gli risponde: ”Io dubito che non troverete nulla di vostro grado alla mia mensa”. - “La lingua biforcuta è in bocca al maligno” controbatte Alfonso, “E lo stomaco vuoto è del cavaliere” gli risponde il prete mentre riprende a ritroso il cammino nell'erba fiorita, verso la canonica. Alfonso non ha neanche il tempo di girarsi che la piccola figura, coperta dal saio marrone, è già scomparsa tra le case vuote. “Vecchio mio” dice al cavallo “oggi si viaggia a naso”.

Muovendosi tra le poche e alte case in pietra, Alfonso cerca di seguire l'unico camino fumante, incastrandosi tra gli stretti vicoli del paese. Dietro un edificio affrescato trova un grande cortile pavimentato a sampietrini, al cui centro si impone una grossa quercia scura le cui radici sono chiuse in un'aiuola. Dietro questa, un portone in legno e ferro incastonato sulla maestosa facciata di un'antica chiesa in pietra. Nella parte di destra del portone una piccola feritoia aperta permette di intravedere l'oscurità all'interno del grande edificio. Alfonso, vi ci si incastra come meglio può e viene accolto entro le mura gelide. In fondo alla navata, alla destra dell'altare, da una piccola porta scappa una fioca luce tremolante di focolare. Nonostante il grosso rosone e le molte vetrate, i suoi occhi faticano ad abituarsi al buio così profondo dell'antichissima struttura. I suoi passi ritmati risuonano nel grande e buio scheletro dell'antico edificio mentre si avvicina alla piccola stanzetta. Al suo interno il prete si sta dando un gran da fare per accogliere il suo nuovo ospite, per poi improvvisamente sedersi, dando le spalle al focolare. “È da molto tempo che questa Chiesa è vuota” dice il prete ad Alfonso, il quale, senza troppi complimenti, siede alla tavola imbandita. ”I fedeli non ci sono più a causa del mostro”. “Ora potranno finalmente ritornare” gli risponde impettito il cavaliere “Ho sconfitto quella bestia una volta per tutte”. Mentre dice questo, affonda le mani nel pane strappandone generosi pezzi, che poi intinge nella zuppa di carne che il prete aveva già posto davanti ad una comoda sedia di lengo. Il prete lo osserva nutrirsi ingordamente per un periodo, fissando il cavaliere, arcigno, senza deferire parola. “Dopo pranzo suoneremo le campane a festa, capiranno di poter tornare” ripredne il cavaliere tra un boccone e l'altro. “Chi capirà?” gli fa il prete. “I contadini, gli artigiani, insomma tutto il paese, potranno tornare alle loro case” risponde Alfonso con la bocca piena. Il prete gli versa del vino rosso in un calice d’oro. Il cavaliere fissa il calice davanti a sé, sorpreso, -deve essere quello che usa per la messa- pensa. “Voi non mangiate, Padre?” gli chiede portandosi il pesante calice alla bocca. “Non vorrei rovinare la tua ultima cena” gli risponde lui. Alfonso si ferma, immobile, fissando il calice mezzo vuoto. Una lunga lingua di fuoco fugge dal focolare, illuminando l’intera stanza. Da figura minuta il prete sembra crescere e gonfiarsi, oscuro e imponente. “Mi sembrava di non aver reso grazie” dice Alfonso con l’arrogante calma della stanchezza, alzandosi da tavola e posando la mano destra sull’elsa della spada. La luce che schiarisce la lunga tavola imbandita ne rivela il satanico orrore. “Hai bevuto dal calice, e ora puoi vedere”. I piatti sono stracolmi di carne e pezzi cotti che sembrano dita umane. Occhi conditi, un piccolo braccio arrosto, una tinozza piena di capelli variopinti. E il calice risplende di rosso scarlatto, un colore anche troppo noto ad Alfonso, il colore del sangue. “Non c’è popolo da chiamare, il popolo non è mai fuggito” gli dice il prete con voce sempre più graffiante e rauca. Delle gemme nere ed allungate risaltano all'interno delle sue sclere gialle scagliate. Un improvviso conato prende di forza Alfonso, che vomita sulla tavola imbandita di orrori, e subito cerca la via della porticina. Dietro di lui uno strisciare, una bestia enorme e morbosa che striscia placidamente e con facilità schiaccia il tavolo in legno, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Davanti all'altare, illuminato nell'oscurità dalla fioca luce del rosone, Alfonso si mette in guardia con la spada sguainata. Piccoli riflessi di luce si originano dagli elementi in ferro lucido della sua armatura, colpiti sporadicamente dalla luce del camino che riesce a superare l'oscura figura del mostro. Un sibilo di frusta rimbomba nel vuoto della Chiesa, e Alfonso fa a malapena in tempo a scansarsi all'indietro per evitare il colpo della mostruosa coda assassina, che lo manca mandando in frantumi l'altare. “Non c’è scampo!” gridano all’unisono i due, l’uno avvicinandosi iroso e l’altro indietreggiando, disperato. “Bestia disgustosa!” grida Alfonso mentre cerca una via d’uscita. -” Sì, maestosa in crudeltà” gli ribatte con fetido orgoglio quell’orrido essere. “In nome del maligno, brucerai e ti strazierai ai suoi piedi, accetta il tuo destino”. Al sentire queste parole il cavaliere è accecato dalla collera, -prima mi ha fatto mangiare carne umana, ora mi schernisce, a me! - “Il destino che accetto è la salvezza Divina! Io sono Alfonso Scariot!” e con queste parole scatta in avanti sferrando un poderoso colpo di spada al torace della bestia. Il colpo risuona in tutta la chiesa. Il metallo vibra forte ed acuto contro la corazza dura ed impenetrabile del mostro, e dal fendente scaturisce un fiore rosso di scintille che per un breve istante illumina le figure dei due combattenti. Ma nulla accade. Ogni speranza è perduta. L'enorme bestia sovrasta imponente il piccolo cavaliere, impotente. Alfonso stringe la spada a due mani, trascinando i piedi in posizione di guardia, pronto a colpire ancora al grido di “Pro eques rub-”. Un'esplosione tremenda scuote lo scheletro dell’edificio, ed una chiara luce soffoca l’intera navata. Senza dubitare, Alfonso si getta a rotta di collo verso l’enorme portone che si è spalancato, mentre la bestia si rintana nell’oscurità. A pochi passi dall’uscita Alfonso scorge una sagoma nera che risalta nella luce. “Stupida bestia!” grida mentre lanciandosi in un balzo disperatissimo cade in groppa al suo cavallo, il quale, sorpresissimo, stava già quasi galoppando in direzione opposta alla chiesa. 

#note:

nulla evasio est : non c'è via di fuga, non c'è modo di sfuggire.

Ecce alius martyrum : ecco un altro martire.

Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam : non a noi, o Signore, non a noi ma al nome tuo dai gloria; è il motto dei cavalieri templari "Ordo Templi".

Eques ruber! : il cavaliere rosso! nella cultura cristiana San Giorgio è associato al colore rosso.

Pro Sancto Georgio! : per San Giorgio! /in nome di San Giorgio!

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