

La figura di Maria, da un punto di vista evangelico
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La figura di Maria, da un punto di vista evangelico
Partiamo dalle bellissime parole del Vangelo di Luca.
Luca 1:46 E Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore, 47 e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore, 48 perché egli ha avuto riguardo alla bassezza della sua serva; poiché ecco, d’ora in poi tutte le generazioni mi proclameranno beata, 49 perché il Potente mi ha fatto cose grandi, e Santo è il suo nome! 50 E la sua misericordia si estende di generazione in generazione verso coloro che lo temono. 51 Egli ha operato potentemente col suo braccio; ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52 ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha innalzato gli umili; 53 ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote. 54 Egli ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55 come aveva dichiarato ai nostri padri, ad Abrahamo e alla sua progenie, per sempre».
Figura centrale e luminosa, Maria, la “benedetta fra le donne” (εὐλογημένη σὺ ἐν γυναιξίν), occupa un posto singolare nella storia della salvezza, non per grandezza innata, ma per la sua docilità alla Grazia. Ma in che senso ella è “benedetta”? Non come porta coeli, come taluni la chiamano con tono solenne, poiché fu Cristo stesso a proclamare: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E ancora: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini, mediante il quale dobbiamo essere salvati» (At 4,12). Non vi è dunque mediazione che possa sostituire o affiancare quella del Figlio, unico Redentore.
Nel Commento al Magnificat (1521), Martin Lutero contempla Maria nella sua verità più profonda: creatura umile, umana, colma di gioiosa reverenza di fronte ai doni divini. Per il Riformatore, la più alta beatitudine dell’essere toccati dalla Grazia è il servire Dio con gratitudine e letizia. Maria, in questo senso, non si innalza, ma si lascia innalzare: «Dal momento in cui Dio ha guardato all’umiltà della sua serva, tutte le generazioni mi chiameranno beata» — e Lutero chiarisce: non è Maria ad essere lodata, ma la grazia di Dio che si è posata su di lei. E aggiunge, con tenerezza teologica: «Beata sei tu che hai trovato un tale Dio». Nessun turbamento, dunque, nel riconoscerla indegna: ella stessa lo confessa, e non mente, riconoscendo che Dio ha guardato alla sua ταπείνωσις, la bassezza, non per merito, ma per puro dono, per sola gratia.
Tanto più si insiste sul merito di Maria, tanto più si vela la grandezza del Magnificat, che è canto alla Grazia, non all’uomo. Il rischio, ammonisce Lutero, è quello d’innalzare la Madre fino a farne un idolo, quando invece il suo stesso canto proclama l’abbassamento dell’orgoglioso e l’elevazione dell’umile.
Per questo, l’espressione evangelica «tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48) — ἰδοὺ γὰρ ἀπὸ τοῦ νῦν μακαριοῦσίν με πᾶσαι αἱ γενεαί — non è titolo di gloria personale, ma riconoscimento del dono ricevuto. Il verbo μακαριοῦσίν non indica un’intrinseca superiorità, bensì l’azione di “dichiarare beata”, di riconoscere nell’altro il segno del divino che agisce. Maria è beata non perché degna, ma perché guardata. E nel suo sguardo si riflette la speranza di ogni credente: essere trovati da Dio nella nostra umile verità, e lì, solo lì, resi beati.
È chiaro, dunque, che il rispetto per la figura di Maria non si esaurisce in gesti esteriori di genuflessione o in forme devote di riverenza, per quanto sincere, ma si radica in una speranza ben più profonda: quella di poter, come lei, esultare in Dio, riconoscere la sua azione nella propria vita, lasciarsi attraversare dalla sua luce. Questo è il vero honor debitum — l’onore dovuto — che le generazioni successive le rendono: non un culto votivo, ma la condivisione del suo canto, il Magnificat, che è giubilo dell’anima immersa nel mistero della misericordia divina.
Per Karl Barth (1886 – 1968), teologo della parola e del silenzio dinanzi al Dio Altro, la risposta di Maria non scaturisce da una disposizione naturale dell’anima, da una sorta di eccellenza intrinseca, ma è frutto della Grazia. In lei si compie non il trionfo della virtù umana, ma il miracolo della Parola che chiama, che suscita, che forma. Maria è beata — μακαρία — non in forza della sua fede, ma perché Dio ha detto. È la Parola che la precede, la tocca, la trasforma. Beata non perché crede, ma perché ha ascoltato. Beata perché il Verbo si è rivolto a lei.
E così, ancora una volta, il centro si sposta: non sull’azione della creatura, ma sull’iniziativa del Creatore; non sulla virtù della donna, ma sull’irruzione della Parola. Maria, allora, ci guida non a se stessa, ma al Logos; non alla sua gloria, ma a quella di Dio. E in questo consiste il suo canto, la sua beatitudine, la sua eterna esemplarità.
Nel Commento al Magnificat del 1521, Lutero coglie l’essenza più pura e vertiginosa dell’essere divino in ciò che egli chiama il gratuito assoluto: un irradiarsi di grazia che si manifesta, in Maria, come rivelazione e riflesso della presenza di Dio nella storia e nella creazione. In queste pagine, Maria non è esaltata per prerogative proprie, ma risplende nella trasparente obbedienza del suo sì, nella luminosa esemplarità di chi si fa strumento docile e libero dell’opera divina. Maria incarna, così, in forma eminente, la vocazione universale del cristiano: accogliere l’iniziativa di Dio e lasciarsi trasformare da essa, collocandosi nel cuore più vivo dell’umano.
Alla teologia riformata non occorrono – anzi, risultano incompatibili – interpretazioni corredentrici o mitizzazioni che alterino la radicale centralità di Dio. È già vertiginosamente sufficiente che l’Onnipotente elegga una humilis ancilla a veicolo della propria salvezza: in questo paradosso si rivela la forza del Vangelo, e insieme si giustifica – senza sminuirlo ma anzi esaltandolo – l’aspetto umano del Cristo, generato non dal potere umano, ma per grazia e volontà divine.
Occorre riconoscere che, nel tempo, dogmi e tradizioni hanno, talora, trasfigurato la figura di Maria agli occhi della pietà popolare, elevandola quasi a divinità corredentrice, alla quale sono stati consacrati templi e altari, suppliche e voti. Questo culto, pur ammantato di devozione sincera, è stato giustificato dalla teologia cattolica attraverso una distinzione dottrinalmente raffinata ma non sempre compresa nel suo spessore: quella tra la latrìa [dal lat. tardo latrīa, gr. λατρεία «servitù, culto», der. di λατρεύω «servire»] – culto di adorazione assoluta, riservato unicamente all’eterno e increato Dio – e la dulìa [dal gr. δουλεία, propr. «servitù», der. di δοῦλος «servo»], forma di venerazione tributata a coloro che, partecipando della santità divina, sono considerati segni e strumenti della sua presenza.
Tuttavia, in seno al cristianesimo monoteista, già la nozione trinitaria – trina unità del Padre, del Figlio e dello Spirito – rende teologicamente complesso, seppur armonico, il volto di Dio. Che bisogno c’è, allora, di introdurre ulteriori mediazioni, eleggendo Maria a intercessore esemplare, a ponte tra l’umano e il divino, se non, addirittura, a quarto principio della salvezza? Non rischiamo forse, così facendo, di spingerci oltre la soglia del mistero trinitario fino a sfiorare, ambiguamente, l’ombra di una tetraeità, già latente, del resto, nella proclamazione di Maria Theotókos (Θεοτόκος ), Madre di Dio? Una tensione sottile, che interroga i confini della fede e il rischio di una devozione che, pur animata da amore, può talvolta sfiorare l’eccesso più che la sobrietà del dogma.
Gli evangelisti Matteo e Luca, nel narrare la concezione virginale di Gesù, intendono proclamare un mistero di doppia appartenenza: Gesù è generato dal Padre eterno e, insieme, partorito nel grembo di una donna, venuto al mondo attraverso la carne di Maria. La sua origine divina non annulla la sua umanità, ma la assume interamente, e la sua nascita da vergine intende essere segno di questa duplice provenienza: Dio dall’alto, uomo dal basso.
Tuttavia, oltre tale proclamazione evangelica, non vi è fondamento scritturistico per i due grandi dogmi mariani promulgati dalla Chiesa Cattolica Romana: l’Immacolata Concezione del 1854, secondo cui Maria sarebbe stata preservata dal peccato fin dal primo istante della sua esistenza, e l’Assunzione al cielo del 1950, che ne celebra la glorificazione corporale. Questi dogmi, per quanto nati da secoli di riflessione e devozione, rischiano di traslare Maria fuori dal tessuto umano, e con lei il Figlio, la cui carne, invece, ci riguarda da vicino.
Infatti, se Gesù è veramente Dio da Dio, ma anche pienamente uomo da donna, ogni tentativo di separare Maria dall’umanità comune rischia di velare, se non di alterare, l’umanità stessa del Cristo. In tal modo, si corre il rischio di allontanarlo, rendendolo irraggiungibile, quasi necessitassimo di intermediari – Maria, i santi – per varcare un abisso che egli stesso ha invece colmato venendo tra noi.
Per la Riforma protestante, l’insistenza sulla nascita virginale, sebbene non negata, è considerata adiaphora, una dottrina non essenziale alla salvezza. La visione della donna, del corpo, della sessualità si situa altrove, in un diverso orizzonte antropologico e teologico. La Scrittura non canonizza la verginità come valore in sé; al contrario, la purezza, secondo la rivelazione evangelica, non risiede nell’astensione, ma nel cuore che sa accogliere il perdono (cfr. Giovanni 8,1-12). È lì, nell’intimità risanata dalla misericordia, che si rivela la vera santità: non nell’assenza di colpa originaria, ma nella possibilità sempre offerta di rinascere in Dio.
Tutto questo discorso, sia chiaro, non intende in alcun modo sminuire la statura spirituale di Maria, né reciderne il posto unico nella storia della salvezza. Al contrario, esso mira a esaltarla nella sua più autentica grandezza: quella di creatura interamente plasmata dalla Grazia, divenuta, non per merito proprio ma per dono divino, segno luminoso di ciò che la fede può operare nell’umano.
Maria non è oggetto di venerazione perché eccelle per natura, ma perché si lascia abitare da Dio; è grande non per sé, ma per ciò che Dio ha compiuto in lei. Solo la Grazia fa di Maria ciò che ella è, e proprio in questa totale trasparenza al divino risiede la sua esemplarità, il suo splendore, la sua forza.
Letta in questa luce, la preghiera di Maria – il Magnificat che il Vangelo di Luca ci consegna al primo capitolo – risuona come canto di libertà, come inno di riconoscenza che innalza l’umile e rovescia i potenti, che consola chi è piegato e innalza chi spera. In quelle parole – ricordate all’inizio di questo scritto – si raccoglie un’intera teologia della speranza: là dove Dio guarda con favore ciò che il mondo trascura, e rende fecondo ciò che appare sterile. Là dove la salvezza prende corpo nel silenzio di una ragazza di Galilea, che dice sì, e nel suo sì si apre la storia nuova.
Ed è speranza dell’umanità essere, come Maria, abbracciati dalla Grazia di un Dio misericordioso
I protestanti, dunque, nutrono per Maria un profondo rispetto e sincero affetto, come per ogni figura biblica che si staglia nella Scrittura quale testimone della fede, modello di obbedienza, compagna nel cammino dell’umanità verso Dio. La onorano non meno di Abramo, di Mosè, di Davide, di Rut, di Paolo — tutti collaboratori nella grande architettura della redenzione, in quel disegno divino che tesse, nel tempo, una storia di giustizia, speranza e amore. Ma non la pregano, né la invocano come “santa” in senso esclusivo, poiché la loro visione della santità si fonda su una radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani redenti dalla Grazia.
Nel pensiero della Riforma, nessuno tra coloro che sono chiamati da Dio — né profeti, né apostoli, né martiri — è più amato, più perdonato, più glorificato degli altri. Nessuno, per quanto grande, può divenire oggetto di culto o soggetto d’intercessione, poiché un solo Mediatore è stato dato tra Dio e gli uomini: Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, nel quale si uniscono cielo e terra.
La preghiera, dunque, si rivolge direttamente a Dio, senza timore, senza arroganza, senza il bisogno di intermediari, in uno spirito di riconoscenza profonda. È un dialogo schietto e fiducioso, non la lista di un mendicante, né il commercio di favori spirituali. Si deve vegliare, con cura, affinché il rapporto coram Deo non venga pervertito da una logica utilitaristica, dove Dio diventa funzionale ai nostri bisogni e desideri. Pregare non è chiedere, ma esporsi: è lasciare che Dio ci incontri dove siamo, così come siamo, perché la santità non si conquista, si riceve. E ogni cuore che si apre, come quello di Maria, diviene terra fertile per la venuta del Regno.
Detto ciò, tutti coloro che sono stati chiamati e scelti da Dio — Maria per prima, nella pienezza del suo sì — sono ritenuti santi, ma non in forza di un’eccezionale virtù personale, bensì perché redenti, accolti, trasformati per grazia, mediante la fede. Non vi è merito che giustifichi, né opera che possa vantarsi: così insegna Paolo con limpida fermezza nella Lettera agli Efesini: «È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, è dono di Dio. Non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,8-9).
Questa parola apostolica non è sentenza su pochi eletti, ma svelamento universale: essa riguarda ogni uomo e ogni donna, ugualmente segnati dalla condizione di creatura caduta, e ugualmente raggiunti dall’offerta di perdono. Tutti, senza distinzione, peccatori e perdonati. In questa verità disarmante e liberante si fonda la dignità dei santi: non come eroi del bene, ma come poveri salvati, anime redente che testimoniano la potenza della misericordia divina più che la gloria dell’umano sforzo.
Maria stessa, allora, nella sua umiltà esultante, è l’archetipo della creatura che non si gloria se non di Dio. E in questo, forse, consiste la sua più alta santità: nel non trattenere nulla per sé, ma nel lasciarsi attraversare dalla luce, come una finestra limpida sull’invisibile.
Concludendo, non potremmo neppure aver Fede, e neppure pregare, se ciò non venisse suscitato dall’opera di Dio. Scrive bene, a questo proposito, Agostino nella Lettera 194:
«3. 15. Se infatti diremo che in precedenza c’è stata la fede in cui era il merito della grazia, qual merito aveva l’uomo prima di ricevere la fede? Che cosa infatti ha uno senza che lo abbia ricevuto? Ora, se lo ha ricevuto, perché mai se ne vanta come se non lo avesse ricevuto 46? Come nessuno avrebbe la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà, il timor di Dio se non avesse ricevuto, secondo il detto del Profeta, lo Spirito di sapienza e d’intelletto, di consiglio e di fortezza, di scienza, di pietà e di timor di Dio 47, e come nessuno avrebbe nemmeno il coraggio, la carità, la continenza se non avesse ricevuto lo Spirito di cui l’Apostolo dice: Non avete infatti ricevuto lo Spirito di timore, ma di coraggio, di carità e di continenza 48; così non avrebbe nemmeno la fede, se non avesse ricevuto lo Spirito di fede, di cui il medesimo Apostolo dice: Ora, avendo il medesimo Spirito di fede, secondo quanto sta scritto: Ho creduto e perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo 49. Che poi la fede sia ricevuta non per qualche merito, ma per misericordia di Colui che ha pietà di chi vuole 50, lo dimostra assai chiaramente l’Apostolo nel passo in cui di se stesso dice: Ho ottenuto la misericordia d’essere fedele. 4. 16. Se poi diremo che ai fini di ottenere la grazia precede il merito della preghiera, il fatto che è la preghiera ad ottenere tutto quello che ottiene, dimostra evidentemente ch’è un dono di Dio, affinché l’uomo non pensi d’avere da se stesso ciò che, se fosse in suo potere, di certo non lo chiederebbe con la preghiera. Perché non si pensi – dico – che precedono almeno i meriti della preghiera, in ricompensa dei quali sarebbe concessa una grazia non gratuita – che perciò non sarebbe più nemmeno grazia poiché sarebbe una ricompensa dovuta – anche la stessa preghiera si trova tra i doni della Grazia».
Il dipinto dell’illustrazione: Raffaello: «Madonna della Seggiola», olio su tavola (71 cm), databile al 1513-1514 circa e conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.

