OMICIDI IN FAMIGLIA. Motivazioni economiche
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OMICIDI IN FAMIGLIA. Motivazioni economiche
Introduzione
Al fine di analizzare il fenomeno degli omicidi intrafamiliari con motivazioni economiche, data la peculiarità della ratio criminis in questione, risulta necessario effettuare una premessa di natura metodologica, fondata sulle casistiche giudiziarie risultanti in ambito processuale penale.
Poiché in diverse fattispecie di uccisioni di genitori o fratelli, i responsabili del reato de quo sono stati giudicati in grado di intendere e volere, ai sensi dell’art. 85 2^ comma-C.P., la presente analisi deve essere svolta al di fuori dei perimetri della psicopatologia criminale, ossia in diversi ambiti delle scienze umanistiche, e non solo come si dirà in seguito, in cui il comportamento umano viene studiato in rapporto a determinati sistemi sociali, valoriali, nonché economici, proprio per individuare i fattori criminogeni non riconducibili allo stato mentale del reo.
Al riguardo, un caso paradigmatico per supportare detta impostazione di lavoro appare essere quello di Pietro Maso il quale, ventenne, il 17 aprile 1991, con l’aiuto di alcuni amici, massacrò i propri genitori nella loro abitazione di Montecchia di Crosara (VR).
Lo psichiatra allora incaricato dal Pubblico Ministero, quale perito, il professor Vittorino Andreoli, pur riconoscendo in Maso un “disturbo narcisistico della personalità” lo giudicò sano di mente, in quanto totalmente capace di intendere e volere al momento dell’omicidio e, di conseguenza, pienamente imputabile ai fine processuali. Analoga conclusione riguardò anche suoi amici, complici nel delitto. Per scrivere la sua perizia di 177 pagine, il noto psichiatra impiegò due mesi di lavoro quotidiano, insieme a cinque colleghi dell’Università di Verona, incontrando gli imputati molte volte. Il movente di tale efferato crimine risultò esclusivamente di natura economica; i giornali dell’epoca, che riportarono testualmente le conclusioni peritali in questione, lo sintetizzarono nel “bisogno di soldi facili per il miraggio di acquistare auto di grossa cilindrata e vestiti alla moda.” Le motivazioni del drammatico assassinio provocarono un grande impatto emotivo nell’opinione pubblica, tant’è che ispirarono anche un film, “I pavoni” di Luciano Mannuzzi del 1994.
Il documento così stilato da Andreoli, in quel preciso momento, rappresentò una novità per gli studi criminologici in quanto un medico psichiatra introdusse per la prima volta un’analisi sociologica come elemento di valutazione del comportamento criminale nell’alveo di un procedimento penale. Difatti, lo stesso perito affermò “sarebbe una finzione ignorare la responsabilità di una società che ha contribuito a produrre quei colpevoli - sostiene lo psichiatra - perché non è possibile separare l’individuo dai gruppi, così come non è possibile separare un neonato dalla madre”. Continuando usa parole di fuoco contro il piccolo mondo di Montecchia di Crosara “l’unico vero dio in questi luoghi è il denaro, e lo si tiene nascosto dentro i tabernacoli, i soldi si accumulano stupidamente ed è come se non ci fossero, però per averli si è disposti a fare tutto. Un paese stravolto dal benessere, dove la scuola è considerata una perdita di tempo e l’ignoranza una grande strategia della sopravvivenza.”
Va detto che l’impostazione di analisi seguita da Andreoli trova origine negli studi svolti negli anni Sessanta da F. Ferracuti e M. E. Wolfang, definibili innovativi nell’ambito del contesto accademico italiano del tempo. Utilizzarono, infatti, un approccio interdisciplinare per spiegare i comportamenti violenti, in primis gli omicidi, non sempre premeditati. Le loro ricerche tendevano a dimostrare che l’omicidio si verifica con maggior frequenza in determinati gruppi sociali in cui hanno luogo stretti contatti tra autore del reato e vittima, come ad esempio nell’ambito famigliare. Altresì, rilevante ai nostri fini, tesero a stabilire come il ricorso alla violenza da parte dei soggetti criminali per risolvere i problemi materiali quotidiani, sia originato dalla scarsa importanza da loro attribuita alla vita umana.
Quindi, le risultanze della perizia di Andreoli, soprattutto per i rimandi critici agli aspetti socio-economici del contesto criminogeno così analizzato, risultano utili per evidenziare ulteriormente l’idoneità di quei modelli interpretativi della Sociologia, di seguito delineati, per spiegare i comportamenti devianti o criminali non determinati da aspetti psicopatologici, ossia aventi motivazioni di ordine razionale, quali quelle economiche, oggetto del presente lavoro.
Le teorie sociologiche del crimine
Il compito di analizzare le interazioni criminogene tra individuo e struttura sociale è stato svolto storicamente dalla Sociologia classica.
Difatti, una parte importante degli studi sociologici sul crimine e sulla devianza è stata fortemente influenzata dall’opera di Emile Durkheim (1858-1917) il quale, nell’alveo delle analisi dei comportamenti devianti, si concentrò più sui fattori sociali che sulle risultanze dei modelli statistici. Secondo questo grande studioso, uno dei fondatori della moderna sociologia, ogni azione umana non può essere esaminata e valutata se non viene inquadrata all’interno di un sistema di valori e di norme sociali che regolano e controllano i comportamenti. Ne consegue che qualsiasi attività umana (o manifestazione comportamentale) può dipendere sia dalla storia e struttura della personalità del soggetto che dalla storia e struttura del sistema in cui viene posta in essere. Pertanto, un’indagine sugli aspetti psicologici o sociologici della devianza non è esperibile separatamente, perché i due aspetti sono interconnessi in quanto gli uni implicano delle acquisizioni degli altri. Il convegno “Riflessioni sulla criminalità in famiglia: prospettive multidisciplinari”, svoltosi il giorno 6 luglio 2022 presso l’Università Niccolò Cusano, da cui discende la presente pubblicazione, costituirebbe la concreta applicazione di questo approccio interdisciplinare.
Durkheim risolve il problema metodologico, per analizzare e spiegare i comportamenti devianti, introducendo il concetto di “anomia” attraverso il suo famoso saggio Il suicidio (1897) in cui tratta la condizione moralmente degradata a causa della quale alcune categorie di persone hanno uno scarso controllo sui propri comportamenti.
Il presupposto da cui parte l’autore è che le società sono costituite da un insieme di sentimenti e valori che costituiscono la c.d. “coscienza collettiva”. Questa, a sua volta, determina la densità morale dell’insieme sociale.
L’anomia, di conseguenza, indica la disgregazione dei valori collettivi e l’assenza dei punti di riferimento. Nella citata opera, Durkheim individuava bassi tassi di suicidio nei contesti in cui era più alta la densità morale e viceversa, deducendo che proprio il calo di densità morale provocava il formarsi di patologie sociali.
Il comportamento deviante, pertanto, grazie al grande studioso francese, viene studiato nella sua rilevanza sociale, ovvero rapportato a quel sistema regolato da norme di valore, con procedure quantistiche/statistiche, rilevando come l’anomia, seppur latente nelle società ad alta divisione del lavoro, si manifesta maggiormente nei periodi di crisi economica o di rapido mutamento (quindi incontrollato). Tesi che ancor oggi si può considerare del tutto valida.
Successivamente, il concetto di anomia fu ripreso e modificato da Robert K. Merton, il quale influenzò in maniera determinante la Sociologia della devianza nei decenni successivi, ispirando le ricerche di numerosi studiosi appartenenti a quell’area di studi definita Criminologia moderna.
Il sociologo americano stabilì che l’anomia fosse il risultato della non integrazione tra le “mete culturalmente prescritte”, ossia i condizionamenti culturali diffusi per cui la maggioranza dei componenti delle società a sviluppo avanzato aspira alla ricchezza e al possesso di beni materiali (la c.d. società dei consumi) e la disponibilità di mezzi legittimi o istituzionalizzati per raggiungerli.
Merton individua cinque possibili reazioni ai rapporti che si verificano tra le suddette mete culturali e mezzi istituzionali:
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Conformità (le mete culturali e i mezzi istituzionali vengono accettati indipendentemente dal raggiungimento del successo) es.: maggioranza della popolazione;
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L’innovazione (le mete culturali vengono accettate rifiutando però i mezzi istituzionali) es.: disoccupato che si arricchisce attraverso atti illegali;
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Il ritualismo (i mezzi istituzionali vengono accettati senza tener conto delle mete culturali) es.: un lavoro meramente esecutivo;
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La rinuncia (vengono rifiutati i mezzi istituzionali e mete culturali) es. i c.d. senzatetto (homeless);
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La ribellione (le mete culturali e i mezzi istituzionali vengono rifiutati e sostituiti con altri) es.: il terrorismo anarchico.
Ai fini della nostra analisi rileva la seconda ipotesi, ovvero l’innovazione, quale risposta sociale.
A causa delle loro posizioni nella struttura sociale (e quindi delle relative condizioni economiche) alcune categorie, come quelle meno agiate, non sono in grado di raggiungere le mete ambite, rappresentative di status sociale elevato, di prestigio, potere, appartenenza a una casta.
Ne consegue che le persone/soggetti che si trovano in queste condizioni di limitazioni materiali oggettive sono sottoposte a pressioni e frustrazioni tali da provocare forti tensioni interiori e spingere l’individuo a porre in essere un comportamento deviante o criminale, tra cui il furto o l’omicidio. Tali situazioni di fatto criminogene, in passato, sono state ben analizzate dalle “teorie delle tensioni”, in proposito si rimanda agli studi di Vold-Bernard.
Nel tempo altri studiosi hanno fornito il maggior contributo nell’analisi delle motivazioni razionali (tra cui in primis quelle economiche) alla base degli omicidi in ambiente familiare.
Uno di questi è stato Robert Agnew, docente di Sociologia nell’Emery University Atlanta, il quale nei suoi studi, svolti negli anni Novanta per esaminare i fattori che inducono alla commissione di un delitto, sostiene che è più probabile che venga posta in essere un’azione criminale quando il soggetto deviante: 1) attribuisca l’origine delle sue tensioni interiori ad altri (conviventi per esempio); 2) abbia scarse possibilità di reagire a situazioni di disagio o problematiche; 3) non riceva il sostegno morale o psicologico dei familiari o di altre persone per lui rilevanti e non devianti; 4) mostri dei tratti di personalità caratterizzati da impulsività o irascibilità (tipo il disturbo narcisistico della personalità. Come, ad esempio, indicato nella menzionata perizia effettuata su Maso); 5) risulti di poter delinquere in una condizione di costi-benefici a lui favorevoli (circostanza quest’ultima poi ripresa in maniera organica e scientifica da Gary Becker, economista, di cui si dirà più avanti).
Un successivo passo nell’analisi dei comportamenti devianti e criminali, sempre in ambito sociologico, fu costituito dalla “teoria della scelta razionale”, elaborata da Daniel B. Cornish e Robert V. Clarke, attraverso cui s’intende spiegare le motivazioni razionali, assunte nel tempo, sulla scorta delle capacità analitiche e delle informazioni utili, alla base dell’azione delittuosa tesa a soddisfare i bisogni ritenuti primari. In altri termini si cerca di analizzare il processo decisionale seguito dal deviante o criminale in termini di valutazione delle opportunità, i potenziali rischi e i vantaggi conseguenti.
Tale teoria introduce il concetto di “razionalità limitata”, che si ritrova anche nelle teorie di microeconomia, relative alle scelte del consumatore/soggetto economico in quanto condizionate da motivazioni legate all’esaltazione del piacere, del denaro, dell’ostentazione di stili di vita privilegiati, nonché da mutate capacità di analisi del contesto socio-ambientale.
Come visto, nell’alveo delle teorie sociologiche sopra richiamate, a fattor comune, è stato asserito che i comportamenti devianti o criminali sono provocati dagli stati di rabbia e frustrazioni provocati dall’impossibilità di realizzare le aspettative, di soddisfare i bisogni materiali ritenuti dal soggetto primari o importanti. Suddette teorie trovano riscontro fattuale, oltre che nel citato processo Maso, anche nelle indagini svolte dalla Magistratura in ordine ai casi di omicidio intrafamiliare verificatisi nell’anno 2022 in Italia, solo per citare i più recenti: 1) in marzo Diego Gugole uccide i propri genitori per acquistare una casa e vestiti di grandi marche, in provincia di Verona, evocando così il precedente caso di Pietro Maso; nel mese di maggio le sorelle Zani in provincia di Brescia assassinano la propria madre per intascare l’eredità.
Detti efferati reati sono stati indotti da una pervasiva cultura consumistica, non mediata da alcuna capacità critica, anche a causa di scarsa scolarizzazione, capace di generare istinti e forti pulsioni irrazionali, come stabilito dalle diverse teorie sociologiche del crimine dianzi menzionate.
Pertanto, risulta importante illustrare i fattori psico-sociali, ovvero quelle “mete culturalmente prescritte” indicate da Merton, che condizionano questi soggetti per i quali assume rilevanza fondamentale la condizione di vita materiale, tanto da determinarne le scelte criminali, come purtroppo la cronaca giudiziaria, tra cui quella in rassegna, conferma.
Onde poter procedere in tal senso è necessario evidenziare che il soggetto criminale sotto l’aspetto motivazionale, agisce come homo oeconomicus, ossia un agente economico, motivato dalla massimizzazione delle utilità materiali e del profitto, avulso dal contesto sociale o culturale in cui vive. Il concetto fu introdotto da J. Stuart Mills.
Di conseguenza, sorge un eventuale problema, fondamentale per tale soggetto: la scarsità di reddito, che limita la libertà di scelta, ovvero impone di scegliere fra le cose che sono accessibili, rinunciando a quelle impossibili da acquisire per eccessiva onerosità o che sembrano meno necessarie. Quindi come consumatore ognuno di noi opera delle scelte. Chi sceglie, opera economicamente, in quanto valuta l’efficacia dei mezzi rispetto all’urgenza dei fini ed esprime le sue valutazioni mediante rapporti di scambio fra cose utili e limitate, fino a confondersi. Indubbiamente ci sono preferenze che vogliono massimizzare il benessere collettivo o l’idea di giustizia; al contrario, ci sono preferenze che seguono l’istinto, l’emozione, la gratuità, i condizionamenti esterni. In primis culturali, di cui sopra. In questo ultimo caso risulta evidente l’estrema soggettività nel quantificare l’utilità marginale per il consumatore.
La linea interpretativa che amplia i confini dell’utilità marginale è stata ripresa e approfondita dagli economisti comportamentali.Difatti, dall’apporto di altre discipline scientifiche, in particolare delle neuroscienze, ma inizialmente sulla spinta decisiva di H. Simon, premio Nobel per l’economia nel 1978 (che mette in grande rilievo il concetto di una razionalità limitata), si è incominciato a indagare in maniera nuova sui percorsi decisionali del consumatore, ovvero su come un individuo stima le probabilità di un evento, come elabora l’utilità di una scelta, come valuta le alternative, come reagisce ai divieti normativi, nel senso di un adeguamento o di una violazione.
In questa prospettiva s’inserisce Thaler, il quale, nel raccordo tra psicologia ed economia, evidenzia gli aspetti irrazionali nelle scelte dell’homo oeconomicus. Da Pareto a Elster, molti grandi studiosi avevano affrontato l’argomento, che viene però rielaborato da una nuova prospettiva. Più precisamente, lo stesso Thaler afferma che i soggetti economici sono influenzati da due tipologie di processi mentali: le distorsioni cognitive (distorsive biases) e le distorsioni determinate dal contesto sociale e culturale (scorciatoie semplificate o euristiche). In particolare, la mancanza di una corretta e complessiva informazione determina le predette distorsioni, considerate procedimenti mentali intuitivi e sbrigativi, che permettono di costruire un’idea generica su un argomento senza effettuare troppi sforzi cognitivi, quindi al di fuori di un giudizio critico. Sono strategie, utilizzate spesso per giungere rapidamente a delle conclusioni, che inducono a compiere scelte errate e in alcuni casi criminali, che pertanto non si rivelano vantaggiose, bensì dannose per l’individuo stesso e per la collettività.
Per focalizzare meglio i suddetti biases cognitivi, ovvero quei costrutti mentali che sono all’opera nella vita di tutti i giorni, non solo sui comportamenti, ma anche sui processi di pensiero, per cui gli individui sono continuamente vittime di pregiudizi, stereotipi, trappole cognitive e, in conclusione scarso autocontrollo, ripercorriamo le interpretazioni sociologiche più conosciute. Iniziamo da quelle di Bauman, secondo il quale siamo di fronte a un nuovo modello antropologico, definito homo consumens, che dà il titolo a un suo libro, in cui analizza innanzitutto le dinamiche consumistiche.
Bauman qualifica i gruppi di consumatori come “tribù postmoderne”, attraverso una metafora: le tribù hanno bisogno di rituali per caratterizzare la propria appartenenza e per delimitare i propri confini. In un’economia integralmente basata sui consumi per l’identità diventano fondamentali gli oggetti. La previsione delle tendenze diventa oggetto di una scienza: le ricerche di mercato; mentre gli oggetti di consumo si rinnovano continuamente: senza un continuo e insaziabile acquisto, tra le persone si diffonderebbero fenomeni di frustrazione e addirittura di solitudine, con sensazioni profonde di inadeguatezza personale. Ne consegue l’instaurarsi di uno stato di squilibrio interiore, di tensione tra la volontà del consumatore e la realtà esterna, in cui sono presenti condizioni ostative all’immediato soddisfacimento dei bisogni: scarsità di beni, costi elevati, limitazioni nella vendita, divieti normativi. Se la spinta irrazionale risulterà vincente, l’homo consumens agirà in qualsiasi modo per procurarsi l’oggetto del desiderio, quello definito dallo stesso Bauman come “totem”, che si deve possedere in ogni caso, a tutti i costi, anche se non convenienti sotto l’aspetto puramente economico. L’identità è legata ai consumi, in funzione dei quali si forma e si trasforma.
Le utilità attribuite ai consumi debbono essere immediatamente deperibili, poiché i bisogni di ieri sono oggi sorpassati: un consumatore si soddisfa per pochissimo tempo. Il consumismo vieta punti di arrivo, qualsiasi gratificazione è imperfetta. Nonostante ciò, quando li compriamo, ci rendiamo liberi dalla responsabilità, non in ritardo e in coda a confronto con le “mode del branco”; ci sentiamo innanzitutto sollevati, poiché un’accusa di “non conformismo” genererebbe senso di colpa, nevrosi, depressione e frustrazione, in più abbinate al complesso di colpa per aver trasgredito quelle regole che escludono un soggetto dal gruppo di appartenenza.
Questa è la società dei consumatori, formata da tanti sciami, come sostiene Bauman, che si radunano per futili motivi e sono attratti da obiettivi mutevoli. Per questo la ricerca della felicità rimane solo una promessa, perché la gratificazione non viene mai realmente raggiunta. Lo sciame è archetipo di un nuovo tipo di solitudine, nella massa e in una contraddittoria insoddisfazione.
Anche altri studi hanno affrontato le tematiche riconducibili al concetto di homo consumens. Uno degli studi più importanti è di Jean Baudrillard, il saggio La società dei consumi, pubblicato nel 1970, che risulta uno dei primi volumi pubblicati sui consumi. Si distingue rispetto a studi storici come quelli di T. Veblen e alle trattazioni successive, inclini a studiare sondaggi e preferenze di mercato.
Baudrillard teorizza che il consumo di massa oggi non riguarda più il miglioramento della vita umana. Ci sarebbe un continuo rinvio da un segno all’altro: le immagini non si riferiscono più alla realtà, ma creano una realtà parallela, virtuale, illusoria, costituita da riferimenti a sé stesse, non alla società, che, in un senso molto particolare, smette di esistere. Per Baudrillard, esiste innanzitutto una competizione per l’identità, per la distinzione e per lo status. La funzione principale del consumo è creare dei meccanismi di esclusione e di inclusione, utilizzando i beni come accessori rituali e i marchi come strumenti tribali di identificazione.
Baudrillard, riconosceva in Barthes un predecessore perché quest’ultimo sosteneva, in maniera pioneristica, che “gli oggetti formerebbero un insieme organizzato di segni, globale, arbitrario e coerente. Il bisogno di un bene fa parte di questo mondo di illusioni: non va inteso come una relazione tra un individuo e un oggetto, ma come una relazione tra segni che sono parte di un sistema culturale specifico di questa nostra modernità consumistica”, nella quale l’antico ordine di valori, norme, beni è sostituito da un nuovo ordine di bisogni illusori, coltivati a piacimento per fini di profitto e di consenso politico. A partire dal consumo la realtà viene trasformata in un miscuglio di immagini, simulacri e simulazioni, con una netta preminenza complessiva del consumo sulla produzione.
Molti altri studi sono stati dedicati al rapporto tra consumi e rituali di identificazione. Per Douglas e Isherwood il consumo non è rivolto primariamente verso i bisogni, soprattutto perché determina un processo rituale, attraverso cui si svolge una funzione differenziante e discriminatoria. Queste analisi hanno precedenti illustri. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, Simmel era stato uno straordinario precursore, studiando la moda in pagine celebri. Gli studiosi capiscono gradualmente che le scelte di consumo diventano una scorciatoia per affermare sia la propria appartenenza a determinati gruppi sia la propria personale identità: sono uno strumento per differenziarsi anche all’interno del proprio gruppo di appartenenza. Riflessioni parallele le ritroviamo nel succitato Veblen, che definisce un determinato tipo di consumo come “vistoso” in quanto l’acquisto ha la funzione di esibire le differenze sociali, di classe e di status. Tanti anni dopo, sul tema della differenziazione sociale Bourdieu ha scritto uno dei suoi notissimi capolavori.
I prodotti di moda diventano oggetto di culto: totem per le tribù, come abbiamo visto. I giovani sono le prime vittime del consumismo, si dedicano a prodotti di consumo “griffati”, assecondando involontariamente gli intenti e aumentando i profitti delle grandi multinazionali Molti studiosi hanno notato il comportamento emulativo dei ceti popolari, che aspirano agli stessi beni “vistosi”, in quanto esibiti dalle classi più agiate; servono a simulare una condizione economica diversa da quella reale: non segnalano la propria posizione sociale, ma inducono a ingannare. In questi giochi di immagini, la legalità rischia di diventare un fattore secondario. Il “benessere”, la felicità personale, appare la cosa più importante, spesso in contraddizione con il benessere collettivo, fondato sulle leggi; un benessere che paradossalmente produce in realtà malessere.
Insieme alle analisi di natura sociologica, esistono molti altri studi, soprattutto in ambito psicologico, importanti per analizzare l’impatto del consumismo sui concetti di corporeità, di salute e sulla distinzione tra bisogni essenziali e secondari.
Una volta i bisogni primari erano legati all’alimentazione e alla cura delle malattie. Nelle società di consumo però cambia il concetto di bene primario: fondamentale è la gratificazione dentro il gruppo di appartenenza, non la salute personale. Una famosa narrazione di un cambiamento epocale nella percezione e gestione della corporeità è stata data da Michel Foucault. L’aspetto fisico ha una rilevanza specifica, nelle distorsioni del comportamento economico, all’interno di una società consumistica ed edonistica. Diventano beni primari addirittura la cura della pelle o del tono muscolare, dieta e fitness sono parole d’ordine. La cura dell’aspetto fisico, anche tra i giovani e tra gli uomini, arriva fino al parossismo: si preferisce rinunciare a beni di prima necessità pur di acquistare prodotti che facciano apparire più gradevoli. Sulla cultura del narcisismo Christopher Lasch ha scritto pagine molto note: nell’incertezza sui sentimenti, il consumatore dipende dalle conferme della propria immagine che derivano dagli altri, ma soprattutto dagli specchi che riflettono la sua immagine, come le proprie scelte di consumo. Il valore della bellezza diventa il culto dell’apparenza; in parallelo, anche la legalità può essere considerata (e di fatto diventare) mera apparenza. L’aspetto fisico diventa la cosa più importante, perché le apparenze diventano preminenti, come affermano Baudrillard e altri studiosi: per essere accettati bisogna apparire piacevoli, a ogni costo (illegalità inclusa).
È stato messo in evidenza più volte che il soggetto economico non agisce in maniera completamente razionale, il suo percorso decisionale è influenzato da distorsioni cognitive, provocate dal contesto socio-culturale in cui si trova a vivere. Difatti non vengono acquistati soltanto beni oggettivamente utili, ossia necessari per la sopravvivenza o per il miglioramento delle condizioni di vita; spesso si compra per soddisfare bisogni superflui, indotti dall’esterno, attraverso forme di vera e propria manipolazione. Per questo, secondo Andreoli ci sono adolescenti che non si pongono alcuna prospettiva e aspirano ad avere il prodotto del momento, talmente importante da diventare oggetto di culto, con un significato sacro, quasi taumaturgico.
Teoria economica del crimine
Da quanto stabilito nelle teorie di Robert Agnew, Daniel B. Cornish e Robert V. Clarke (in particolare dalla “teoria della scelta razionale”), nonché in quelle degli economisti comportamentali, tutte in precedenza richiamate, emerge come in determinati contesti sociali, quindi anche in ambito intrafamiliare, i motivi economici siano spesso alle origini di comportamenti illegali o criminali, quest’ultimi oggetto specifico della presente dissertazione.
Ovviamente tale analisi risulta fondata, come ribadito più volte, quando l’attività criminosa non è provocata da disturbi psicopatologici della personalità o da spinte emotive irrazionali, sottostando, pertanto, alla regola della razionalità.
Secondo le diverse teorie del crimine, tra le valutazioni poste alla base delle scelte di impiegare le risorse a disposizione per commettere i reati c’è anche il possibile ritorno di due grandezze: la possibilità di essere scoperto e l’irrogazione della sanzione (sia di natura penale che amministrativa).
Il delinquente cioè, sarebbe influenzato nelle sue decisioni dalla valutazione oggettiva sia dei benefici che dei costi stimati conseguenti al suo comportamento. Molti di questi ultimi fattori appartengono all’area del rischio della punizione prevista dalle leggi e dalle modalità di applicazione delle pene irrogate. La comparazione costi-benefici qui richiamata è quella che attiene in specifico modo all’analisi economica delle scelte effettuate da un soggetto. Per tale motivo anche nell’ambito degli studi criminologici si deve fare riferimento alle teorie economiche, per comprendere le motivazioni alla base delle attività criminali.
Pertanto, nel presente capitolo cercheremo di illustrare tale relazione di natura micro-economica facendo ricorso alla più nota tra le teorie economiche della criminalità: quella formulata dal premio Nobel 1968 per l’economia Gary Becker, il primo che ha fornito una valutazione economica del crimine.
L’economista parte dal presupposto che i criminali siano esseri razionali spinti ad agire dalla massimizzazione del proprio benessere. Trasferendo sul comportamento criminale il paradigma della scelta razionale del consumatore in condizioni d’incertezza; Becker individua i fattori che determinano la scelta del comportamento criminale: probabilità di essere scoperti e puniti, severità delle sanzioni (penali e amministrative), reddito disponibile per altre attività legali o illegali, valutazione dei benefici ricavabili, inclinazione personale a compiere reati e circostanze ambientali.
Secondo Becker un individuo decide di violare una norma se l’utilità attesa da questa violazione eccede il livello di soddisfazione al quale può pervenire utilizzando il suo tempo e le sue risorse in maniera alternativa, e cioè dedicandosi a un’attività legale. La spiegazione così esposta viene espressa dalla seguente funzione:
Oj = OJ (pj, fj, uj)
dove 0 è il numero dei reati commessi da una persona in un particolare periodo j, p la probabilità di essere individuato, arrestato e condannato per quel reato, f la sanzione prevista per quel reato, e u una variabile che cumula tutti gli altri fattori che, al di là di quelli previsti, influenzano la decisione (come l’aumento del reddito percepibile svolgendo un’attività legale, un miglioramento dell’educazione a rispettare la legge).
Un aumento di p ed f, che determinano il costo complessivo dell’attività illegale, dovrebbe ridurre l’utilità attesa dal comportamento criminale e di conseguenza il numero dei reati.
Allo stesso modo, la variazione di alcune variabili rappresentate da u, potrebbe costituire un disincentivo a commettere attività illegali riducendo anche in questo caso il numero dei reati.
La formula di Becker spiega il comportamento di un ipotetico criminale razionale informato sui costi e benefici delle sue decisioni, in grado cioè di valutare se e quando commettere un’azione criminale in alternativa a un comportamento legale. Un’astrazione necessaria dalla quale consegue un’implicazione di politica criminale: per ridurre l’ammontare di questi comportamenti razionali criminali occorrerebbe un sistema di giustizia penale altrettanto razionale. Capace, cioè, di orientare la sua attività fatta di applicazione corretta delle leggi penali, azione di repressione e attività giudiziaria al perseguimento dell’obiettivo della riduzione dei comportamenti criminali a minori costi economici, sociali e di libertà possibili. Su questo versante, ossia quello dei “costi” del crimine, è fondata l’ipotesi della prevenzione penale speciale o generale, altrimenti chiamata politica di deterrenza dei reati, per cui il comportamento criminale tenderebbe a variare in discesa rispetto a un aumento della probabilità e severità della punizione.
Un’applicazione concreta delle teorie di Becker e quindi dei suoi effetti nella realtà del contesto criminale italiano, si può ritrovare nell’alveo del saggio del 2018 scritto dal noto magistrato Piercamillo Davigo “In Italia violare la legge conviene”. Vero in cui dimostra, anche grazie a dati statistici, come i meccanismi premiali previsti dal codice di procedura penale e il malfunzionamento della Giustizia del nostro Paese risultino “criminogeni”, poiché riducono di molto i “costi” del crimine sopra indicati, intesi quindi come applicazione effettiva delle sanzioni penali, misure di prevenzione, modalità di espiazione delle pene previste per commissione di un reato. In altre parole, parametrando gli esiti delle analisi tecnico-giuridiche, svolte dall’autore in merito all’attività repressiva dei reati, ai coefficienti previsti dalla funzione sopra esposta, risulterebbe che i coefficienti p ed f (costi) assumano un valore basso, determinando, di conseguenza, l’innalzamento dell’utilità (benefici) dell’attività criminale, che in tal modo potrebbe essere incentivata o comunque non inibita. Proprio al riguardo, un riscontro della fondatezza delle teorie dell’economista americano, in particolare applicate agli omicidi in famiglia aventi motivazioni economiche, è stato fornito dallo stesso Davigo, seppur in forma alquanto empirica e poco accademica, ma di fatto sostanziale e reale, nell’ambito della presentazione pubblica del suddetto volume. Difatti, nella citata circostanza in equilibrio tra ironia e un pizzico di amarezza, dimostra con i codici alla mano, e quindi dati certi, come dal punto di vista giudiziario “sia conveniente sopprimere la moglie che separarsi. La valutazione costi-benefici del crimine così evocato per ragioni economiche, in linea con quanto previsto dalla funzione matematica di Becker, viene così esplicata dall’ex componente togato del CSM: “Per la soppressione del coniuge la pena prevista è trent’anni. Ma vediamo cosa succede. Se uno ammazza la moglie e confessa, porta a casa le attenuanti generiche. Grazie alla sua versione, l’unica, magari si becca anche l’attenuante della provocazione. E risarcisce il danno che in realtà è il costo della separazione. La somma delle attenuanti più il giudizio abbreviato fanno diventare i 30 anni iniziali quattro anni e quattro mesi. Da scontare in carcere, però. Neanche per sogno! I requisiti non ci sono. Pericolo di fuga? Si è costituito. Inquinamento delle prove? Ha confessato. Reiterazione del reato? È vedovo! Un anno e quattro mesi ai domiciliari e poi servizi sociali, e questo è quanto.”