

Libero arbitrio e Grazia in Sant'Agostino
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Libero arbitrio e Grazia in Sant'Agostino
Diverse problematiche possono essere sollevate su questo argomento. Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare che il concetto di libero arbitrio sia correlato alla contingenza umana e alla sua necessità di compiere scelte, per poi interrogarsi sull’esistenza, o meno, di tale facoltà in senso assoluto. Tuttavia, questa rappresenta una questione filosofica, e teologica, per eccellenza.
Analizzeremo, in questa sede, sommariamente la questione dal punto di vista di un padre della Chiesa, che lega inscindibilmente l’aspetto filosofico a quello teologico. La posizione di Agostino di Tagaste (354-430), in merito a questo problema, importante e vitale nella tradizione cristiana, fu duplice: in una prima fase, un Agostino appena convertito, battezzato nel 387, nel dialogo De libero Arbitrio (scritto tra il 387 e il 395), contro i Manichei, difese la libertà umana e il non essere del male, idea di origine Stoica, ma chiaramente trattata da Plotino, Enneade I, 8, 3-5, poi, nel mondo cristiano, ad esempio, da Clemente d’Alessandria (150-215), Stromata IV, 13, ed anche da Origene, De Principiis I, 109. In una seconda fase, la più, teoreticamente, matura, Agostino divenne invece il Doctor Gratiae contro le posizioni di Pelagio.
Nel De libero Arbitrio, Agostino afferma che l’uomo e la sua volontà, entrambi provenienti da Dio, sono per natura buoni. La prescienza divina non nega la libertà dell’uomo: egli si trova in una condizione media, capace di volgersi, deliberare, al bene oppure al male. Quest’ultimo consiste nel preferire ciò che è ontologicamente minore nella scala dell’essere (concetto platonico, cfr. Platone, Simposio, 210A – 212A). Al male, quindi, non si attribuisce alcuna realtà, confutando così le dottrine dualistiche manichee [1], che fecero parte della giovinezza di Agostino.
Questa visione della questione è, per così dire, classica, rientrando nella categoria della concezione della libertà come capacità di autodeterminazione implicita nella natura razionale, e non coinvolge né il problema del “peccato originale” né quello del “traducianismo” (la trasmissione del peccato da generazione in generazione), posto, ad esempio, da Tertulliano (De Anima, 22) e ripreso con forza dalla Riforma protestante nel pensiero di Martin Lutero.
Agostino ribalta questa visione nella polemica contro il monaco Pelagio (360-420), il quale sosteneva che l’uomo potesse salvarsi con le proprie forze poiché il peccato originale non aveva completamente annientato l’intrinseca capacità al bene della natura umana [2]. Pelagio, similmente a Clemente d’Alessandria ed Origene, non attribuiva rilevanza al peccato originale. Agostino, al contrario, reagisce ponendo l’accento proprio su questo aspetto.
Di capitale importanza, in questo contesto, è il capitolo 7 della lettera di San Paolo ai Romani, dove l’autore parla drammaticamente del suo conflitto interiore: «16 Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18 Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19 infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20 Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me».
Il conflitto interiore
Il problema del conflitto interiore è affrontato da Agostino anche nei libri VII e XIII delle sue Confessioni. San Paolo evidenzia come, dopo il peccato originale, la volontà non sia più libera: la mera volontà di compiere un’azione non è sufficiente. La volontà si è indebolita, incapace di agire autonomamente a causa della colpa originaria. Nell’uomo coesistono due nature: una che tende al bene e l’altra che lo spinge irreversibilmente al male [3]. Il peccato diventa una sorta di potenza personale che assoggetta l’uomo in modo assoluto (vedi anche Ro 6:13). In altre parole, il peccato determina un’incapacità di deliberare [4] il bene, una privatio boni, di definizione agostiniana, causata dalla prima decisione di Adamo, la cui volontà rimarrà irreversibilmente segnata. Pertanto, per Agostino, l’umanità, isolata da Dio, non sarà altro che una massa damnationis [5].
L’espressione “massa damnationis”, ma anche “massa peccati” o “massa dannata”, individua un concetto che Agostino introduce durante la disputa pelagiana, e non solo, ma anche nel De Civitate Dei. Tale immagine esprime il fatto che l’umanità, a causa del peccato originale, è di per sé dannata senza alcuna possibilità di salvezza (cfr. Rm 3,9-18). Potremmo definirla una sorta di “costante antropologica” in quanto riguarda tutta l’umanità (universa generis humani, afferma Agostino [6]), sia cristiana o meno, incapace di riscattarsi senza un intervento esterno, ossia, nel nostro contesto, la Grazia [7].
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