

IL CONCETTO DI VOLONTÀ IN LUTERO E SCHOPENHAUER
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IL CONCETTO DI VOLONTÀ IN LUTERO E SCHOPENHAUER
IL CONCETTO DI VOLONTÀ IN LUTERO E SCHOPENHAUER
Questo saggio prende l’avvio da uno spunto suggerito dallo stesso Arthur Schopenhauer (1788-1860) nel paragrafo §70 della sua opera fondamentale, Il mondo come volontà e rappresentazione[1], pubblicato nel 1819, che si richiama alle concezioni cristiane della volontà nella lettura agostiniana e luterana. Questo richiamarsi a Lutero da parte di Schopenhauer, peraltro, non sembrerebbe un mero riferimento intellettuale. Ricordiamo, infatti, che nel 1817 in Germania si celebrò il terzo centenario della Riforma di Lutero. Forti furono per l’occasione le istanze nazionalistiche, che esprimevano la loro contrarietà nei confronti della Francia monarchica, dello spirito della Restaurazione e dei nemici interni della riunificazione tedesca.
In questa sede ci soffermeremo particolarmente sul pensiero di Martin Lutero, in quanto è, al di fuori degli studi specialistici, sicuramente meno noto in Italia.
Il richiamo di Schopenhauer a Lutero
Come è noto il tema della volontà è centrale nel pensiero di Schopenhauer[2], il quale, pur rifacendosi a Kant, sostiene che l’essenza del noumeno, la “cosa in sé”, sia proprio la Volontà[3], mentre per Kant è inconoscibile, lasciando al fenomeno lo statuto di unica realtà conoscibile, mentre per Schopenhauer il fenomeno è l’illusione che nasconde la realtà delle cose nella loro essenza autentica. Per Schopenhauer la natura e il mondo non hanno un’origine razionale, pensiero chiaramente antihegeliano[4], ma nascono da un istinto irrazionale di vita, da una pulsione informe e non controllata che è appunto la Volontà[5]. Alla “cosa in sé” si attinge attraverso un ponte di passaggio non trascendentale: il corpo[6]. Attraverso di esso — che appartiene come fenomeno al mondo della rappresentazione e partecipa come noumeno alla realtà autentica — scopriamo che siamo nel mondo come una sua parte. Proprio questo ci permette di squarciare il velo del fenomeno e cogliere la “cosa in sé”. Scopriamo, secondo Schopenhauer, che la radice noumenica del nostro io è la Volontà: noi siamo Volontà di vivere, un impulso irrazionale, come detto, che ci muove, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire. La materialità dell’io, la sua attività, «l’azione del corpo non è che l’atto della Volontà oggettivato»[7], ci mostra due facce diverse: una esteriore, quella che si offre alla rappresentazione per cui esso appare corpo; una interiore per cui esso si svela come tendenza, sforzo, Volontà di vivere, Volontà che s’identifica con quella realtà extra fenomenica di cui parlava Kant che però egli raggiungeva attraverso la volontà morale con cui l’io conosceva sé stesso come libertà spirituale. Non c’è dunque spazio per l’ottimismo della ragione, tantomeno quello idealista, dal momento che questa Volontà di vivere, sfrenata e arbitraria, è per Schopenhauer origine della sofferenza[8], da cui se ne esce attraverso l’autoconsapevolezza che il mondo è l’oggettivazione della Volontà, una rappresentazione fenomenica e illusoria — velo di Maya, concetto di origine neoplatonica che Schopenauer mutua dal pensiero orientale indiano —, autoconsapevolezza che coincide con l’auto-negazione della Volontà (noluntas) e permette così di uscire dal ciclo insensato dei desideri, morti e rinascite. Schopenauer descrive, come fecero anche Agostino[9] e Lutero[10], a fosche tinte l’infelice stato dell’uomo, «un essere così colpevole nella volontà, così limitato nello spirito, così fragile e caduco nel corpo, qual è l’uomo», tanto da esprimere «un male i cui orrori nemmeno la più vivace fantasia sa dipingere», fino al punto che «il mondo è appunto l’inferno e gli uomini sono, da una parte le anime tormentate e, dall’altra, i diavoli»[11].
La Volontà così intesa, come forza irrazionale, rende allora problematico intendere la libertà umana[12]. A differenza di Kant, per il quale la nostra libertà deriva da una dimensione indipendente dallo spazio e dal tempo, ed è giustificata dalla possibilità della morale, che senza libertà non si darebbe, Schopenhauer sostiene che la Volontà agisce in modo diverso per determinare la molteplicità dei caratteri individuali umani, che sono di per sé atemporali. In quanto tali i nostri caratteri individuali sono fissati e ci determinano alla nascita secondo inclinazioni predominanti che ci caratterizzano quali siamo. Sono possibili percorsi alternativi per realizzare le nostre inerenti inclinazioni, ma il nostro caratteregenerale rimane invariato. In momenti diversi della nostra vita, avremo diversi gradi di consapevolezza e, rispetto a tali differenze, si presenteranno vie diverse verso lo stesso fine. La libertà della persona risiede semplicemente nell’oggettivare la Volontà stessa in questo o quel tipo di carattere. Da questo punto di vista non si darebbe la colpa a nessuno sulla base del fatto che la persona avrebbe potuto agire diversamente[13]. Sarebbe come dare la colpa alla persona nel suo insieme, per essere quello che è, come si potrebbe incolpare un leone che, seguendo la sua natura, uccida una gazzella.
Schopenhauer riconosce solo una situazione peculiare in cui la fissità dei caratteri intelligibili ed empirici che la Volontà manifesta può essere indebolita. Questo accade quando, dopo aver raggiunto la conoscenza di sé, la Volontà si ribella a sé stessa all’interno della propria manifestazione come negazione della Volontà di vivere. Il filosofo qui propone l’esempio di una persona che arrivi a rendersi conto che la riproduzione sessuale produrrebbe altri esseri che soffrono, e per evitare la perpetuazione della sofferenza, decida di astenersi in virtù di quella consapevolezza, divenendo uno che non gode più delle soddisfazioni associate all’attività sessuale[14]. I genitali della persona sarebbero ancora in grado di funzionare perfettamente a scopo riproduttivo, ma alla luce della consapevolezza della infinita sofferenza — e qui è all’opera la pura consapevolezza — la corrispondente vita interiore del desiderio, che metterebbe i genitali in azione riproduttiva, svanisce.
Il corpo è un’oggettivazione della Volontà come i genitali sono l’oggettivazione del desiderio sessuale. Pure la vita interiore della persona è un’oggettivazione della Volontà, ma in questa situazione, nella Volontà risiede un conflitto che si oggettiva nella persona: da un canto è motivata dal desiderio sessuale, dall’altro lo rifugge alla luce della consapevolezza metafisica. Questo, afferma Schopenhauer, è un esempio di una “reale” contraddizione all’interno della Volontà come “cosa in sé”. Per illuminare questa contraddizione, Schopenhauer ricorre dunque al Cristianesimo, rammentandoci come la dottrina della Grazia coglie l’idea che la volontà sia in contraddizione con sé stessa. Citando Agostino e Lutero[15], Schopenhauer rileva come questi pensatori sostengano che la volontà non sia libera[16], ma determinata ad agire in modo malvagio e che non ci sia nulla che si possa fare a livello personale per uscire da tale condizione. Un atto di Grazia proveniente da Dio rappresenta l’unica via per essere salvati: «nella Chiesa cristiana fu chiamata, assai felicemente, la RIGENERAZIONE e la conoscenza da cui deriva è quella che è detta AZIONE DELLA GRAZIA. Proprio perché non si parla di un cambiamento, ma di un totale annullamento del carattere, ne consegue che per quanto diversi fossero i caratteri prima dell’annullamento che li ha colpiti, essi tuttavia, dopo di esso, mostrano una grande somiglianza nel modo d’agire, quantunque ciascuno PARLI ancora molto diversamente, secondo i suoi concetti e i suoi dogmi»[17]. Schopenhauer intende questo come un parallelo spirituale alla sua visione, un’espressione religiosa e una conferma che la virtù e la santità nascono dalla conoscenza, piuttosto che dalla Volontà, ossia, detto con le parole di Schopenhauer, «la negazione della Volontà di vivere, che è ciò che si chiama rassegnazione totale o santità, deriva sempre dal quietivo della Volontà che è la conoscenza del suo conflitto interno e della sua essenziale vacuità, i quali si esprimono nella sofferenza di ogni essere vivente»[18].
Il suo punto è mostrare come alcune letture del Cristianesimo, quella luterana, nella fattispecie, si muovano su linee di pensiero simili alle sue[19]. Difatti rilegge attraverso il suo pensiero la questione: «la Chiesa chiamò RINASCITA questo effetto dell’azione della grazia. Ciò che essa, infatti, chiama l’UOMO NATURALE, al quale essa nega ogni capacità di fare il bene, è appunto la volontà di vivere, che dev’essere negata, se si vuole ottenere la liberazione da un’esistenza come la nostra». Occorre qui soffermarci sul concetto di “UOMO NATURALE” che ritornerà nella trattazione. Possiamo ricorrere ad un passo biblico esemplificativo: 1Corinzi 2,14: Il testo greco del passo è: “Ψυχικὸς δὲ ἄνθρωπος οὐ δέχεται τὰ τοῦ πνεύματος τοῦ θεοῦ”[20]. La traduzione della vulgata recita: “animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei”. Lutero traduce: “Der natürliche Mensch aber vernimmt nichts vom Geist Gottes”. Abbiamo tre termini apparentemente distinti, ma, in questo caso, sinonimi: psichico, animale e naturale. L’uomo naturale è il perduto, il corrotto, ossia l’Adamo peccatore che nella sua originaria scelta ha rinunciato ai doni sovrabbondanti dello Spirito. L’uomo naturale ha quindi una particolare limitatezza. Ad ogni modo, occorre notare che Psychikos (Ψυχικὸς), naturale, si riferisce semplicemente alla vita animale. Non vi è nulla di negativo in questo collegamento in quanto il termine non indicherebbe un qualcosa di peccaminoso in sé, ma, filosoficamente e teologicamente, l’assenza di discernimento spirituale nell’uomo, dono che egli stesso ha rifiutato, il cui orizzonte ora è limitato alle cose di questa vita, ovvero è caratterizzato dalla carne, una vita costituita da pulsioni animali.
Ritornando al discorso di Schopenhauer, egli ci ricorda come la sua visione filosofica si rifletta nella dottrina cristiana del peccato originale[21], della nascita virginale di Gesù e dei principi fondamentali dell’etica cristiana. Il filosofo, ad esempio, associa Adamo all’affermazione della vita, poiché Adamo rappresenta la condanna dell’umanità a soffrire e a morire: «la dottrina cristiana simboleggia la NATURA, l’AFFERMAZIONE DELLA VOLONTÀ DI VIVERE, in ADAMO, il cui peccato, a noi ereditariamente trasmesso, cioè la nostra unità con lui nell’idea, che si rappresenta nel tempo mediante il vincolo della generazione, ci rende tutti partecipi della sofferenza e della morte perpetua»[22]. Associa invece Gesù alla negazione della Volontà di vivere: «in conseguenza di ciò, si deve sempre concepire Gesù Cristo in generale, come il simbolo o la personificazione della negazione della volontà di vivere».
Vista la sua importanza, riportiamo qui di seguito il testo di Schopenhauer che parla direttamente di Lutero ai cui temi dedicheremo tutto il resto di questa discussione.
«C’è poi una dottrina originaria ed evangelica del Cristianesimo, quella che Agostino, con il consenso dei capi della Chiesa, difese contro la banalità dei Pelagiani[23] e che LUTERO pose come scopo principale della sua aspirazione a mondarla dagli errori e a metterla di nuovo in risalto, come dichiara espressamente nel suo libro De servo arbitrio: la dottrina, cioè, secondo cui la VOLONTÀ NON È LIBERA, ma è soggetta originariamente all’inclinazione verso il male; le sue opere, perciò, sono sempre peccaminose e imperfette e non possono mai soddisfare la giustizia; la dottrina, dunque, per finire, secondo cui non sono assolutamente queste opere a rendere beati, ma soltanto la fede; ma questa stessa fede non nasce da proposito o da libera volontà, ma essa viene a noi per l’AZIONE DELLA GRAZIA, senza il nostro intervento, come dall’esterno. Non soltanto i dogmi ricordati poco prima, ma anche quest’ultimo dogma prettamente evangelico fa parte di quelli che al giorno d’oggi una rozza e piatta opinione rigetta come assurdi o nasconde, poiché essa, nonostante Agostino e Lutero, propensa alla mediocre intelligenza dei Pelagiani, quale è appunto l’odierno razionalismo, fa scadere ad anticaglie proprio questi dogmi profondi, caratteristici del Cristianesimo nel senso più stretto ed essenziali, mentre mantiene saldamente, e ne fa la cosa principale, il dogma derivante dall’Ebraismo e da questo conservato, collegato al Cristianesimo soltanto storicamente. Noi, però, nella dottrina sopra citata, riconosciamo la verità, che coincide pienamente con il risultato delle nostre considerazioni. Noi vediamo, cioè, che l’autentica virtù e santità d’animo hanno la loro prima origine, non nell’arbitrio ponderato (nelle opere), bensì nella conoscenza (nella fede), proprio quello che anche noi abbiamo ricavato dal nostro pensiero principale. Se fossero le opere, che nascono da motivi e da ragionato proposito, a condurre alla beatitudine, la virtù sarebbe sempre non più che egoismo intelligente, metodico, lungimirante, comunque si voglia girare la cosa; ma la fede, a cui la Chiesa cristiana promette la beatitudine, è questa: che come noi, a causa del peccato originale del primo uomo, siamo tutti partecipi del peccato e vittime della morte e della perdizione, così anche veniamo tutti redenti soltanto attraverso la grazia e l’assunzione della nostra enorme colpa per mezzo del mediatore divino, e ciò assolutamente senza nostro merito (cioè, della nostra persona); quello infatti, che può nascere dall’azione intenzionale (cioè determinata da motivi) della persona, le opere, non ci potrà mai giustificare, in assoluto e per sua natura, appunto perché esso è un agire INTENZIONALE, causato da motivi, opus operatum. In questa fede è innanzitutto implicito, che la nostra condizione è originariamente ed essenzialmente miserabile e che abbiamo bisogno della LIBERAZIONE da essa; inoltre, che noi stessi apparteniamo essenzialmente al male e gli siamo così strettamente legati, che le nostre opere conformi alla legge ed alla prescrizione, cioè secondo motivi, non potranno mai soddisfare a sufficienza la giustizia né ci potranno liberare; ma la liberazione si guadagna solo mediante la fede, cioè mediante un mutato tipo di conoscenza, e questa fede può venire a sua volta dalla grazia, come dall’esterno. Ciò vuol dire che la salvezza è qualcosa del tutto estraneo alla nostra persona e indica che una negazione e un abbandono di questa stessa persona, sono necessari per la salvezza»[24].
La negazione, pertanto, genera pace al posto della violenza, altruismo al posto dell’egoismo e così via. Tutto ciò illustra l’intento di Schopenhauer di trasferire la tradizionale dottrina cristiana in una forma più razionale e filosofica. Cercando di armonizzare la sua filosofia anche con le Upàniṣad[25], aggiunge che la sua teoria concorda con le dottrine e i precetti etici dei libri sacri dell’India, lasciando intendere che il suo pensiero contenga le idee guida espresse attraverso il mito dalle principali religioni del mondo.
Schopenhauer ammette che nel fenomeno della negazione della Volontà di vivere, all’interno del mondo spazio-temporale, la Volontà si rivolti contro sé stessa in modo contraddittorio, eliminando e trascendendo così il caratterespecificatamente intelligibile attraverso il quale essa agisce. Ciò produce una sorta di rinascita in un puro soggetto conoscente libero da qualsiasi personalità specifica e quindi alla rinascita di un essere la cui realtà interiore è libera dai consueti scopi che ci guidano nella vita ordinaria. Andiamo ora ad approfondire il pensiero di Martin Lutero[26].
La servitù dell’arbitrio in Lutero
Nel trattare la volontà umana, dal punto di vista di Lutero, dobbiamo considerare la sua natura e la sua funzione, non nell’uomo astrattamente inteso, ma in tre diversi piani, vale a dire, definire il prototipo Adamo prima della caduta, dopo il peccato e di fronte all’intervento di Gesù Cristo, evento che porta alla rinascita spirituale e all’abbandono dell’uomo vecchio. Nel primo Adamo la volontà era libera in entrambe le direzioni, verso il bene e verso il male. Possiamo dire, inoltre, che Adamo è stato creato in stato d’innocenza ma non in stato di santità, ovvero non aveva ancora compito alcun atto che lo qualificasse né in bene e né in male. In altri termini, la volontà di Adamo era in una condizione di equilibrio morale senza alcuna costrizione esterna se non la sua stessa volontà, Questa condizione, per usare termini scolastici, di liberum arbitrium indifferentiae, differisce da quella di tutti i suoi discendenti. Il peccato ha cambiato questa situazione. Il peccatore ora possiede una volontà che non è più in una condizione di equilibrio morale, perché in lui è avvenuta una con-versione al male. La volontà del Cristo, nella sua forma umana, differisce invece da quella dell’uomo peccatore, poiché egli possiede sì l’umanità, ma, allo stesso tempo, innocente, santa e perfetta, specchio della Sua divinità. Pertanto la volontà umana è antitetica rispetto a quella di Dio, il quale si volge unicamente verso il bene, mentre la volontà dell’Adamo decaduto non è più, come abbiamo detto, in una condizione di equilibrio morale, ma è rivolta solamente verso una direzione: quella del male. Il peccatore sarà asservito perché è il servitore di una volontà inclinata al peccato. Di conseguenza, appare chiaro che fare il male significa non fare, essendosi allontanati, la volontà di Dio.
Nonostante tutto, si parla, pure in questo stato di servitù, anche di libertà. In che cosa consiste? L’uomo peccatore è liberonel senso di non essere forzato da altro. In realtà, come abbiamo intravisto anche con Schopenauer, il peccatore non è libero di compiere indifferentemente il bene o il male, in quanto inclinato radicalmente verso la sua essenza, che in questo caso non è il carattere schopenhaueriano, bensì il peccato. Questa inclinazione, però, non è una necessità cieca. Per chiarire la cosa, proponiamo un esempio. Lasciamo cadere una pietra, che succede? Cade, nel sistema fisico da noi conosciuto, sempre verso il basso. Ossia segue necessariamente la legge di gravità. Supponiamo, invece, di voler riporre questa pietra su uno scaffale. Dovrò forzare il suo stato naturale applicando ad essa una forza esterna maggiore e di verso contrario. Certamente, ma si dirà che pure la gravità è una forza esterna. D’accordo, ma se paragoniamo l’uomo peccatore alla pietra, vediamo che esso segue solo la sua legge naturale acquisita, quella del peccato ossia, nella metafora, la gravità. Per cambiare questo stato è necessario l’intervento di una forza esterna che vinca la forza di gravità. Continuando nella metafora, questa forza è rappresentata dalla Grazia divina. Nella visione di Lutero, l’uomo, da sé, non può fare altro che cadere. Non è certamente Dio a spingerlo, tutt’altro. L’uomo potenzialmente è un Caino, un Faraone dal cuore indurito, un Giuda. Dio nella sua prescienza usa queste inclinazioni, radicali, senza mai forzare la volontà umana, la quale è stata segnata volontariamente ed irreversibilmente al male dal primo peccato. Il movimento che il peccatore compie per la sua salvezza, pertanto, non può nascere da un suo atto, in quanto obbligato a seguire la sua natura peccaminosa. Un potere estrinseco, quindi, lo deve afferrare e salvarlo dal suo circolo irreversibile. Pertanto il peccatore è libero, ma libero in una sola direzione: libero di cadere, libero di peccare.
Allora, che cosa muove la volontà? L’ottenimento di un fine, ovviamente. Il peccatore è libero fare ciò che desidera, ma, essendosi allontanato da Dio, egli non si diletta del bene, bensì il suo piacere è nel peccare.
Nella concezione luterana, e ancor di più in quella calvinista, la depravazione della natura umana è di primaria importanza. Il fomite del peccato ha depravato totalmente l’uomo. Il suo ingresso nella sfera umana ha influenzato negativamente la sua ragione e la sua volontà. Depravazione totale vuol dire perdita dei doni spirituali e abbandono alla vita animale, come abbiamo descritta quella dell’uomo naturale. In quanto schiavo del peccato è divenuto pure schiavo del Diavolo. L’uomo è divenuto incapace di comprendere le sue aspirazioni più alte, ossia quelle spirituali, materializzando i suoi fini nel mondo e nel suo amor proprio. In definitiva, nella visione di Lutero, nel peccato nessun uomo è libero, ma, invece, è schiavo del peccato o, simbolicamente detto, di Satana.
Questa schiavitù genera un crescendo di conseguenze nell’uomo: ne ha accecato la comprensione, corrotto il cuore e lo ha alienato da Dio. Sotto il dominio del peccato e di Satana, pertanto, la volontà non è libera. In breve, la volontà sceglie, ma è guidata dalle passioni e da un cuore ingannevole e soprattutto radicalmente cattivo. La volontà è quella di un servitore, il peccatore non è in realtà un agente libero perché è uno schiavo del peccato.
Questo, non nega la proposizione che l’uomo sia un essere razionale e, come tale, responsabile dinanzi a Dio. In effetti, lo è in maniera totale, in quanto egli è imputato di tutti i suoi peccati, talmente profondi che non potrebbero mai essere espiati sotto la legge. Affermare, invece, che sia semplicemente un agente moralmente libero significherebbe negare che sia totalmente depravato. Ma, essendo la volontà umana viziata e corrotta dal peccato, ne consegue, allora, che se mai l’uomo converta la sua strada verso il bene lo farà solamente perché Dio opera in lui. Infatti Dio non possiede una volontà cattiva e, peraltro, il peccatore nella sua natura peccaminosa non può avere una volontà conforme a Dio.
Affinché l’uomo peccatore possa affrancarsi dalla sua schiavitù è necessario che Dio abbia nei suoi piani la sua salvezza. Essa non è un atto umano, quindi, ma di Dio, l’unico a poter riscattare l’umanità, in quanto «nessun uomo può riscattare il fratello, né pagare a Dio il prezzo del suo riscatto»[27]. Punto fermo di tutta la teologia di Lutero: «Dio è Dio, ossia l’assoluto e l’incondizionato; l’uomo è uomo, cioè condizionato e dipendente da Dio»[28].
Il dono della Grazia
Nel libero dono della Grazia, può aprirsi un problema di teodicea: potrebbe Dio compiere un atto gratuito, senza commettere ingiustizia, salvando chi ha agito malvagiamente?
Commentando il celebre luogo del cuore indurito del Faraone[29], Lutero annota: «Ma la fede e lo Spirito giudicano altrimenti: essi credono infatti che Dio è buono, anche se votasse alla perdizione tutti gli uomini. A che serve affaticarsi con queste speculazioni per rigettare sul libero arbitrio la colpa dell’indurimento? Che il libero arbitrio faccia pure con tutte le sue forze ciò che è in suo potere; nondimeno sarà incapace di mostrare un solo esempio in cui l’uomo possa evitare di essere indurito, se Dio non gli avrà dato lo Spirito, o in cui si sia meritato la misericordia, se sarà stato abbandonato alle sue sole forze. Che importa infatti che sia indurito, o che si meriti di essere indurito, dal momento che l’indurimento è necessariamente nella sua natura, sin tanto che, a detta dalla stessa Diatriba[30], è nella sua natura l’incapacità di volere il bene?»[31].
Successivamente, Lutero, precisa ancor meglio da cosa dipenda questa incapacità della volontà umana: «La seconda ragione addotta dalla Diatriba è che quel che è fatto da Dio “è molto buono” [Gen. 1:31 ] e che Dio non ha detto: “Io t’ho creato per questo”, ma: “Io t’ho lasciato sussistere per questo” [Es. 9:16]. In primo luogo, diciamo che ciò è stato affermato prima della caduta dell’uomo, quando le cose fatte da Dio erano molto buone. Ma, nel terzo capitolo della Genesi, segue immediatamente il racconto del modo in cui l’uomo è divenuto malvagio, è stato abbandonato da Dio e lasciato a sé stesso. Da questo uomo così corrotto sono nati tutti gli empi, compreso Faraone; come dice Paolo: “Eravamo per natura figliuoli d’ira, come gli altri” [Ef. 2:3]».
Ecco, dunque, riaffiorare il tema del peccato: l’indurimento deriva appunto dalla natura decaduta, solo l’intervento di Dio può salvarlo. In assoluta libertà «Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia»[32]. Il mantenimento nello stato di peccato lo si può considerare inscritto in un progetto divino, ma «la ragione dichiarerà che ciò non si conviene a un Dio buono e misericordioso. Supera di troppo le sue facoltà di comprensione e non può neppure costringere sé stessa a credere che un Dio, il quale operi e giudichi in tale maniera, sia buono; ma, a prescindere dalla fede, vuole toccare, vedere e comprendere in che modo sia buono e non crudele. […] in che modo siano buone al cospetto di Dio le cose che per noi sono cattive, questo solo Dio lo sa e coloro che vedono con gli occhi di Dio, cioè che possiedono lo Spirito»[33]. L’abbandono, quindi, ha un significato che trascende la ragione umana. Si potrebbe ricordare che è stata la creatura a voler abbandonare il creatore[34]. Pertanto, per Lutero, sarebbe impensabile, senza la grazia, un ritorno fondato su di una decisione unilaterale e sulle sole opere. La volontà, agostinianamente parlando, viene schiacciata dal peso della colpa[35], la carne pertanto non potrà partecipare allo spirito. La scelta, iniziale, della creatura di volgersi in basso diviene irreversibile. Nulla essa potrà per ottenere la salvezza con le proprie capacità. Per uscire da questa situazione, s’inserisce dunque un avvenimento, unico ed irripetibile, che è cifra dell’amore assoluto di Dio per le sue creature: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui»[36]. Non a caso la teologia di Lutero è definita Theologia Crucis: solo un evento così scandaloso per la ragione poteva sollevare l’uomo dal peccato[37]. Come sappiamo, Lutero, su questo punto, è intransigente: solo la libera ed unilaterale decisione di Dio può dare la salvezza; all’uomo non spetta alcun merito e non ne può presentare alcuno. Concetto che ritroviamo nella lettera di Paolo agli Efesini (2:8-10): «Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo».
Predestinazione, quindi? Lutero, confidando nell’assoluta bontà dell’opera divina, affida la risposta alla prescienza e all’onnipotenza divina che manda a compimento con volontà eterna ed infallibile tutto ciò che accade[38]: «la Scrittura, […], dice che tutto sta e cade sotto l’arbitrio e l’autorità di Dio, e che tutta la terra fa silenzio in presenza dell’Eterno»[39]. Non vi è nulla, inoltre, per l’uomo, che indichi il suo stato di elezione, in quanto anche questa conoscenza appartiene alla imperscrutabile volontà di Dio: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.[…] Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi»[40]. Anche questo rimane, tuttavia, un problema superiore alla ragione umana: qui, in altre parole, si tratta di salvaguardare l’onnipotenza divina. Ora, non è questa la sede per discutere dei concetti di potentia absoluta e potentia ordinata, ma è chiaro che solo Dio può limitare Dio, mai le sue creature. Anche la kenosis[41] del Cristo è comunque un’opera divina non certo condizionata dalle sue creature[42]. Seguendo sempre Ockham, ciò che Dio decide e fa non è legato, per Lutero, a nessuna regola di astratta giustizia, ma è giusto solamente perché è Dio a volerlo[43]. Lo Spirito dona la Fede e con essa la sicurezza che quel che è fatto da Dio «è molto buono»[44].
Concludiamo questa parte con un piccola divagazione: è con grande gioia che Bach faceva cantare il coro sui versi di Samuel Rodigast: «Was Gott tut, das ist wohlgetan, / Es bleibt gerecht sein Wille; / Wie er fängt meine Sachen an, / Will ich ihm halten stille. / Er ist mein Gott, / Der in der Not / Mich wohl weiß zu erhalten; / Drum laß ich ihn nur walten»[45].
Temi principali nel del “De Servo Arbitrio”
Lutero, a prima vista, non risulta essere uno spirito «speculativo», tuttavia conosceva perfettamente le armi teoretiche del suo tempo, che avversava in favore della “viva” Parola di Dio. Ma guardando meglio, traspare dalla sua opera una forte dialettica, che nella sua teologia possiamo inquadrare nei due opposti paolini: lo spirito e la carne. In tal senso, va letta la seguente osservazione di Franco Buzzi: «Pochi pensatori come Lutero hanno il senso dell’”opposizione” e dunque della “differenza insuperabile”. Per lui sono appunto inconciliabili, cioè radicalmente diversi, l’Evangelo e la legge, la grazia e la natura, la giustizia e il peccato, lo spirito e la carne. Queste grandezze, considerate in astratto secondo tutta la loro incontaminata purezza, si elidono a vicenda. Eppure, in concreto, si dà proprio la sintesi degli opposti nell’uomo “giustificato” il quale continua ad essere “peccatore”; liberato dall’Evangelo, continua ad essere sotto l’autorità della legge; raggiunto dalla grazia di Dio, convive col vecchio Adamo peccatore; rassegnato totalmente a Dio nell’atto di fede, resta ancora vittima della sua ragione calcolatrice che non conosce alcuna consegna fiduciale di sé a Dio! Qui non siamo di fronte ad una dialettica delle “idee”, ma dell’”esistenza”!»[46].
L’autocoscienza, a sua volta, è data da Dio. Solo tramite lo Spirito l’uomo diviene consapevole di sé, del suo peccato, di che cosa sia la vera sapienza e di doversi rapportare a Dio. Prima l’uomo vive nel mondo, e ben sappiamo chi è il “maligno signore” che lo governa, nell’illusione, nell’amor sui e ripiegato su di sé: separato da Dio.
Nella sua retorica Lutero pone sempre
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