La Xenìa nel mondo greco antico
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La Xenìa nel mondo greco antico
Vogliamo qui tracciare un veloce abbozzo storico-sociale su un concetto fondante la civiltà greca antica: la Xenìa, ξενία. Con questo termine si intende la visione greca dell’ospitalità, oggettivata nel rapporto tra coloro che concedono ospitalità e coloro che sono lontani dalla loro casa, ossia gli stranieri. Il termine che indica lo straniero in greco è Xénos, ξένος, quindi, sulla stessa radice di ξενία, e sta ad indicare, con un’ampia sfumatura semantica, l’ospite, lo straniero, l’amico (da non confondere con Philos, φίλος, ossia gli amici della stessa comunità o gli affini), come pure il nemico. Per essere stranieri bastava semplicemente appartenere ad un altro Stato greco o Polis, πόλις. Dobbiamo ricordare, in generale, che la civiltà greca si era diffusa su un vasto territorio a partire dalla colonizzazione, tra il 750 e 650 a.C., la quale vide Greci insediati nell’area mediterranea, dai territori egei della Grecia e dal litorale turco fino al Mar Nero, alla Sicilia e al sud dell’Italia, che prese, come è noto, il nome di Magna Grecia. Queste distanze, pur vissute sotto il segno di una generica unità culturale davano luogo a differenti condizioni politiche e a differenti visioni del mondo. La Polis, infatti, era una comunità che si venne delineando, durante un lungo arco di tempo, come una entità politica indipendente, con istituzioni e leggi proprie, corrispondente ad uno spazio geografico definito e stabile, del quale facevano parte, nel complesso, una parte urbana, un territorio rurale, santuari, i confini, ecc.. Da questo punto di vista è importante ricordare la figura di Clistene (Κλεισθένης, 565–492 a.C.) [1], uno dei padri della democrazia [2], ateniese, che con le sue riforme realizzò una Polis con una nuova distribuzione della popolazione su base territoriale, ben definendone i ruoli, che servì, successivamente, da modello.
La Polis rappresentava, dunque, un microcosmo in sé chiuso, dove il cittadino al di fuori del suo territorio poteva non sentirsi legalmente garantito, persino nella sua incolumità. Da qui si comprende la necessità di creare dei rapporti di mutua protezione tra persone di differenti città, che nei fatti erano tra loro stranieri (ξένοι) [3]. Importante ricordare che stiamo ancora parlando in un contesto di “stirpe greca”, il mondo greco, come è noto, distingueva un ulteriore straniero: il “barbaro” (βάρβαρος, onomatopeico che si può ben rendere con balbettante), ossia colui che non parlava greco, o lo parlava male, appunto perché straniero, visto come un autentico estraneo, sia sul piano etnico-culturale, sia su quello politico [4]. Lo straniero “barbaro” era spesso considerato come una minaccia, i persiani, ad esempio erano considerati, appunto, tali. Ma grazie all’evoluzione del pensiero filosofico e con il cambio radicale di prospettiva dovuta alla nascita e alla dissoluzione dell’impero di Alessandro il Grande (Μέγας Ἀλέξανδρος, 356–323 a.C.), la Grecia avrà un nuovo rapporto con i popoli vicini, ci stiamo riferendo al fenomeno dell’Ellenismo [5].
Un caso particolare di “ospite” è rappresentato dal Meteco (μέτοικος) [6], ossia lo straniero greco residente in una città-stato, almeno da più di un mese. Egli poteva risiedere per un periodo determinato di tempo, di circa massimo un anno. Ad Atene, per esempio, il Meteco era obbligato a iscriversi ad una lista [7] che lo distinguesse dai cittadini, a trovare un prosseneta (προστάτης, la prossenia è comunque una forma di ospitalità), un protettore, che garantisse per lui, a pagare il metoikion (μετοίκιον), ossia un’imposta diretta sulla persona, quest’ultima cosa impensabile per un cittadino e, infine, gli erano vietate anche cariche pubbliche e religiose. Ad Atene i meteci occupavano, nei fatti, una posizione intermedia tra i cittadini e i non liberi.
Tornando all’ospitalità, essa su concretizzava attraverso la relazione reciproca tra ospite e ospitato ed era espressa sia attraverso rituali di ospitalità, come abluzioni, banchetti, offerte agli dei, sia attraverso benefici materiali, ad esempio lo scambio di doni, sia in quelli non materiali, come la protezione, il riparo o altri aiuti. In altre parole, per prima cosa, l’ospite aveva il diritto di essere accolto, curato secondo le sue esigenze (in genere lavato e cosparso di unguenti) e rifocillato. L’importanza dell’ospitalità è confermata anche nell’attribuire al dio greco Zeus (Ζευς) il nome di Zeus Xenios (Ξένιος Ζευς), nel suo ruolo di protettore degli ospiti incarnando così anche un obbligo religioso nell’essere ospitali verso i viandanti. Sempre a ribadire la sacralità della Xenìa, abbiamo un tema della mitologia greca, le teossenie (Θεοξενίαι, letteralmente, l’ospitalità verso una divinità), dove gli uomini dimostrano la loro virtù o pietà estendendo l’ospitalità a un umile straniero (ξένος), che si potrebbe poi rivelare una divinità (Θεός) in incognito, la quale ricambierà il dono o la scortesia dell’ospitante con la dovuta ricompensa. Questo per avvertire i mortali che ogni ospite dovrebbe essere trattato potenzialmente come una divinità. Ecco una delle ragioni per cui il viandante può riprendere il suo cammino solo dopo aver accettato, secondo gli obblighi previsti dalle leggi dell’ospitalità, un dono che l’ospitante offre all’ospite e che quest’ultimo non può rifiutare. Il dono, peraltro, fa guadagnare in prestigio ciò che fa perdere materialmente. Rifiutare il dono significherebbe rifiutarsi di riconoscere il prestigio e la posizione sociale dell’altro. Infine, l’ospite è tenuto a ricambiare l’ospitalità qualora le parti si invertano e l’ospitante si venga a trovare, in veste di viandante, nella casa dell’ospite.
E’ nel mito e nella letteratura, importanti luoghi rivelatori congiuntamente alle fonti storiche, che l’ospitalità trova testimonianza delle sue antiche radici. Come non ricordare il mondo omerico, dove troviamo episodi che aiutano a comprendere il concetto di ospitalità nell’antica Grecia. Innanzitutto, la stessa guerra di Troia, come narrata nell’Iliade, si viene a configurare come il risultato di una violazione delle norme della Xenìa. Elena è sposa di Menelao il quale sta ospitando Paride, quest’ultimo la seduce e la rapisce infrangendo gravemente i vincoli dettati dell’ospitalità. Leggiamo nel III libro dell’Iliade: «Menelao figlio di Atreo, invocando Zeus padre: “Zeus sovrano, fa che io mi vendichi di chi per primo mi offese, fa che il glorioso Alessandro cada per mano mia, perché gli uomini che verranno temano anch’essi di offendere l’ospite che con amicizia li accolse”» [8]. Si rivolge alla divinità appunto perché questa violazione, come abbiamo accennato in precedenza, rappresentava un affronto anche all’autorità di Zeus Xenios (Ξένιος Ζευς), che gli Achei, obbedendo pure a un dovere religioso, dovevano di conseguenza vendicare.
L’episodio che fa da cornice alle storie narrate da Ulisse, ossia il rifugiarsi, naufrago, alla corte del re Alcinoo, presso l’isola dei Feaci, è un chiaro esempio dell’ospitalità come concepita dai Greci. Nel libro VII leggiamo: «Prese infine a parlare il vecchio Echenoo, un anziano che sapeva molte e antiche cose e nel parlare eccelleva», egli è pertanto garante dell’antica saggezza, e proseguendo, «Con saggezza fra loro prese a parlare e disse: “Non è bello, Alcinoo, e non è degno di te che un ospite sieda per terra, nella cenere del focolare. Tutti aspettano che tu parli. E dunque fa alzare l’ospite e fallo sedere su un trono ornato d’argento, agli araldi da’ ordine di versare il vino, affinché libiamo al Signore del fulmine che accompagna i supplici sacri. E all’ospite la dispensiera offra la cena, con quello che c’è nella casa”». Alcinoo, quindi, ribadisce l’ordine: «“Pontonoo, mescola il vino nella coppa e distribuiscilo a tutti in sala perché possiamo libare a Zeus signore del fulmine che protegge i supplici e li fa sacri” […] “festeggeremo l’ospite in questo palazzo e offriremo agli dei sacrifici stupendi”». Alcinoo prende in considerazione anche il fatto che l’ospite possa essere una divinità: «Se invece è un immortale ed è venuto dal cielo, allora è qualcos’altro che stanno preparando gli dei. Sempre gli dei si mostrano a noi, visibili, quando offriamo sontuose ecatombi, e ci siedono accanto, al banchetto» [9].
Si possono ricordare, poi, gli esemplari episodi di Glauco e Diomede, quello di Achille e Priamo. Nel primo episodio, come è narrato nel VI libro dell’Iliade, Glauco in battaglia si ritrova faccia a faccia con Diomede ma, scoperto un antico legame di ospitalità, addirittura ereditario (in quanto si riconoscono per ospiti perché tali erano stati i loro padri), entrambi rifiutano di battersi e si scambiano le loro armature secondo il rito del dono. Nel secondo, XXIV libro dell’Iliade, Priamo, il re di Ilio, accompagnato solo da un vecchio servitore e recando una gran quantità di doni per il riscatto, aiutato dal dio Hermes, entra segretamente in campo nemico nella tenda di Achille e si inginocchia ai piedi dell’eroe implorando pietà: Achille è commosso e gli dà ospitalità; dopo aver offerto una cena in onore di Priamo, restituisce il corpo di Ettore.
Nell’Odissea troviamo il banchetto infinito del dio Eolo offerto anche all’eroe: «Giungemmo all’isola Eolia dove viveva Eolo figlio di Ippota, caro agli dei immortali. [...] Sempre essi mangiano [...] Davanti a loro molte vivande sono imbandite, di giorno la casa odora di grasso bruciato, il cortile risuona. [...] E per un mese intero Eolo mi ospitava» [11]. Ma non si è sempre degni di ospitalità, soprattutto se viene rotta una promessa. Ulisse infatti non riesce ad impedire ai suoi compagni che venga aperto il dono di Eolo, un otre contenente tutti i venti. Dopo una conseguente tempesta si ritrova nell’isola dove Eolo lo scaccia: «Vattene da quest’isola, presto, obbrobrio degli uomini. Non è giusto che io offra aiuto e scorta ad un uomo che è in odio agli dei beati. Vattene, è per l’odio degli immortali che sei qui di ritorno» [12].
Significativa anche l’ospitalità del porcaro Eumeo, che condivide un semplice pasto con lo straniero del quale non conosce ancora l’identità, dicendogli: «Non è mio costume, straniero, trattare male un ospite, anche se fosse più malridotto di te. Stranieri e mendicanti, è Zeus che li manda, il dono che possiamo offrire è piccolo ma sincero» [13]. Poi. lo stesso Ulisse viene riconosciuto dalla sua vecchia nutrice Euriclea mentre è intenta a compiere uno dei riti tipici dell’ospitalità, ossia il lavaggio dei piedi, come ordina Penelope: «Ospite […]. Lei ti laverà i piedi, anche se ha poca forza. Alzati dunque, mia saggia Euriclea, e lava quest’uomo […] lo lavava: e subito riconobbe la cicatrice della ferita che con le bianche zanne gli inflisse un cinghiale» [14]. Infine, la stessa vendetta di Ulisse è motivata non solo dalle mire dei pretendenti nei confronti di Penelope, ma anche dall’aver infranto gravemente i vincoli dettati dell’ospitalità, ultimo tra tutti, non averlo rispettato quando si era presentato come anonimo mendicante. Il principe Antinoo, infatti, lo aveva insultato e colpito alla schiena con uno sgabello [15], quando si era presentato nelle misere vesti di mendico. Qui ritorna il tema della teossenia, difatti, Antinoo viene disapprovato dagli altri Proci consapevoli di come dietro al mendicante potesse celarsi, la presenza di un dio [16], in una di quelle frequenti teofanie volte ad osservare gli uomini e i loro comportamenti, per punirli o premiarli. Quindi, pure per questo, prima di iniziare la strage, si appella agli dei: «Cani, non pensavate che dalla terra troiana io facessi ritorno a casa, voi che divorate i miei beni, entrate a forza nel letto delle mie schiave e, me vivo, mi corteggiate la sposa senza temere gli dei che il vasto cielo possiedono, e neppure la tarda vendetta degli uomini» [17].
Questo concetto è dunque ben presente, culturalmente, alle radici dell’identità greca, anche quando non era ancora pienamente delineata nel suo aspetto politico sociale. Esso rimarrà sempre nella forma mentis dell’uomo greco, in tutte le sue fasi politiche, siano esse le tirannidi, la formazione delle Polis democratiche, o la formale unificazione durante la crisi macedone. A margine, è interessante ricordare, sinteticamente, il punto di arrivo dell’influenza macedone, che si realizzò nel 337 a.C. con un’alleanza panellenica nota come Lega di Corinto. Essa ebbe un’importanza epocale in quanto può esser considerata il primo vero tentativo di superamento della storica frammentazione delle Polis. C’è da dire che prima della formazione della Lega di Corinto da parte del re Filippo II (Φίλιππος Β’ ο Μακεδών, 382–336 a.C.), i Macedoni, anche se probabilmente parlavano un dialetto di origine greca, non erano considerati dalle altre Polis come un popolo di cultura e tradizione ellenica, ma dei “barbari”, senza una forma di governo basata sulla Polis, ma su una monarchia assoluta.
L’adesione alla lega venne imposta alle Polis come conseguenza della loro sconfitta a Cheronea nel 338 a.C.. Il sovrano macedone infatti, con la Pace di Corinto [18], sciolse tutte le unioni esistenti tra le città-stato e costituì un nuovo patto che dava il primato alla Macedonia e dove le Polis promettevano pace reciproca. La Lega si presentava, diremmo oggi, come uno Stato federale tra città libere, ma di fatto a capo di essa vi era il re dei Macedoni, che avrebbe potuto comunque intervenire nella politica interna delle singole città.
Sparta si sottomise per ultima alla Lega di Corinto, sotto Alessandro il Grande, a seguito della sconfitta da parte di Antipatro a Megalopoli nel 331 a.C.. A dare ulteriore spinta verso questa decisione fu la prospettiva di una nuova guerra con la potenza persiana, che, è importante ricordarlo, già durante le Guerre Persiane (499-479 a.C.) aveva contribuito indirettamente a forgiare l’identità greca e la necessaria cooperazione tra le Polis.
Ritornando al tema principale del nostro discorso, l’ospitalità aveva, chiaramente, anche valenze di rappresentanza e onore politico. Ad Atene, per esempio, il pritaneo (πρυτανεῖον) era un edificio pubblico dove in origine era ospitato il primo magistrato (πρύτανεως, pritano). In esso vi era custodito il focolare sacro della città dove venivano accolti ospiti di particolare riguardo o cittadini benemeriti [19]. Scrive a questo proposito il Vernant: «l’invito a mangiare nel pritaneo era una forma di xenìa con la quale si onoravano gli ambasciatori stranieri, le ambasciate ateniesi di ritorno, e in generale tutti coloro che la città voleva onorare. Tali privilegi vennero estesi e usati più di frequente nel IV secolo, e divennero parte degli onori regolari che l’assemblea cittadina decideva di volta in volta di tributare ai benefattori della città; per esempio, chi riceveva la cittadinanza veniva invitato a mangiare nel pritaneo, e verso la fine del IV secolo venne istituita la possibilità di un diritto permanente, a volte anche ereditario, di sìtesis» [20].
Peraltro, colui che aveva l’onore ed il diritto, sìtesis (σίτησις, vitto), di sedere tra gli ospiti permanenti del pritaneo, era detto parassito (παράσιτος) dal verbo παρα-σιτέω, che significa “mangio insieme con” e «indicava in origine prevalentemente il ‘commensale’, colui che mangia a spese del suo ospite, ma che di fatto non gli causa danni (anzi porta lustro all’ospite, come nel caso dei poeti)» [21]. Da un certo punto di vista si trattava di cittadini mantenuti a spese dello Stato, come fu ad esempio Cleone (???–422 a.C.) che venne onorato del privilegio del vitto dopo la vittoria contro i Lacedemoni nella Battaglia di Sfacteria, nel 425 a.C., durante la Guerra del Peloponneso [22]. Da questo mantenimento, in epoca latina, il termine acquisirà connotati negativi. Una testimonianza ci è data da Luciano di Samosata (Λουκιανός ὁ Σαμοσατεύς, 120?–186?), che attesterà nell’opera De parasito l’uso spregiativo della parola, che si riscontra anche nel derivato παρασιτία “arte del parassito, bassa adulazione”.
Concludiamo qui questa breve carrellata sul tema. Vorremmo ricordare, come chiusura, un aspetto antropologico, anzi una costante antropologica [23], della Xenìa, che l’antica civiltà greca, come abbiamo intravisto, ha ben messo in pratica. Come più volte mostrato, l’ospitalità presuppone uno scambio reciproco di doni. Non può, a questo punto, non venire in mente un’opera fondamentale, ormai classica, ossia il Saggio sul dono dell’antropologo francese Marcel Mauss (1872–1950) [24]. La teoria espressa dall’autore nasce dalla comparazione di varie ricerche etnografiche, tra le quali lo studio di Franz Boas (1858–1942) sul rituale Potlach e quello dei Kula di Bronislaw Malinowski (1884–1942). In breve, lo scambio dei beni, anche se di valore intrinseco non importante, è uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane, ma pure per creare ponti con il divino. Se ci pensiamo bene, cos’altro non è un sacrificio o un’offerta ad una divinità se non un dono dal quale ci si aspetta di essere ricambiati con la sua benevolenza?
Mauss individua tre momenti fondamentali nel meccanismo del dono, basati sul principio della reciprocità: dare; ricevere (l’oggetto non va rifiutato); ricambiare. Il carattere di obbligatorietà di questi scambi per Mauss era dovuto ad una qualità intrinseca del dono, costituita dalla forza “magica” di colui che l’ha ceduta. Idea che si era fatto studiando lo HAU, ossia, lo spirito della cosa donata, secondo lo gli indigeni dei Maori della nuova Zelanda. Se l’equilibrio non veniva ristabilito ricambiando il dono, lo scambio veniva interrotto e la forza si sarebbe scatenata contro il trasgressore.
Certo, la conclusione di Mauss sembra debole, se ne accorse anche Claude Lévi-Strauss (1908–2009), per il quale gli scambi nascono da principi inconsci: il fatto che Mauss abbia assunto una teoria indigena come spiegazione del fenomeno rappresentava sia un progresso, sia un limite, in quanto, per Lévi-Strauss, la ragione ultima dello scambio non starebbe nello HAU e in ciò che minaccia.
NOTE
[1] “Pochi protagonisti della storia greca hanno avuto un ruolo di importanza pari a quello di Clistene, che, con la radicale trasformazione delle istituzioni ateniesi da lui operata, ha dato vita alla prima esperienza democratica del mondo greco […] Clistene introduce una nuova organizzazione territoriale e amministrativa dell’Attica che, a quanto pare, è finalizzata allo scopo di assicurare uguali diritti di partecipazione a tutti i cittadini (isonomia) e di ridimensionare il predominio delle grandi famiglie aristocratiche nella vita politica della polis. Alla base dell’organizzazione clistenica vi è una nuova articolazione della cittadinanza in dieci tribù territoriali in luogo delle tradizionali quattro a carattere gentilizio. Il sistema con cui vengono costituite le dieci tribù, che sono battezzate con i nomi di eroi locali del mito, appare decisamente complesso e macchinoso: avendo diviso tutta l’Attica in tre grandi aree pressappoco equivalenti per popolazione, il centro urbano (asty), la fascia costiera (paralía) e l’interno (mesógaia), Clistene ripartisce ciascuna di esse in dieci circoscrizioni, le cosiddette trittie, che provvede poi ad assegnare, a gruppi di tre, alle varie tribù, in maniera tale che ogni singola tribù sia formata da una trittia cittadina, una costiera e una terza dell’interno e sia quindi rappresentativa di tutte e tre le aree territoriali. Discusse sono le motivazioni che stanno dietro una scelta del genere (nella quale si è anche ravvisato l’intento del riformatore di avvantaggiare la propria famiglia), ma l’opinione più probabile è che sia ispirata dall’obiettivo di scardinare i potentati locali e di ridurre così il peso che le casate aristocratiche, in virtù del loro radicamento nel territorio, sarebbero in grado di esercitare nelle ripartizioni civiche. In pratica, con il sistema ideato da Clistene, un gruppo nobiliare non ha la possibilità di sfruttare il proprio potere locale e il seguito clientelare di cui dispone per acquisire una posizione di preminenza nell’ambito di una determinata tribù”. Mauro Corsaro, Luigi Gallo, Storia greca, Mondadori, 2010.
[2] “Demos-demokratia. Attestato già in epoca micenea (nelle tavolette in lineare B ricorre infatti il termine damo, che indica un distretto di un regno e la comunità che vi è stanziata), demos può designare sia l’intera collettività sia anche una parte socialmente definita del corpo civico, vale a dire la popolazione comune in contrapposizione ai gruppi di condizione elevata. La stessa duplicità di significato si riscontra nell’uso del composto demokratia, con cui i democratici indicano una costituzione nella quale il potere è nelle mani di tutta la comunità, e non di una parte soltanto, mentre per i pensatori di orientamento oligarchico la demokratia si identifica con il predominio dei non abbienti e perciò con un regime politico in cui a governare è la componente culturalmente meno qualificata della cittadinanza. Incerto è il momento preciso in cui nasce il termine, che è attestato per la prima volta nelle Storie di Erodoto (seconda metà del V secolo). All’epoca della riforma di Clistene, con ogni probabilità, parola d’ordine dei democratici non è ancora demokratia bensì il più antico termine isonomia, che indica un ordinamento politico in cui tutti i cittadini hanno uguali diritti di partecipazione”. Mauro Corsaro, Luigi Gallo, Storia greca, Mondadori, 2010.
[3] “Lo straniero (xenos) non ha per cosí dire alcun diritto quando è fuori dalla sua patria, ma le antiche tradizioni di ospitalità (xenia), illustrate con particolare efficacia dai personaggi aristocratici in Omero, e le necessità dello scambio hanno contribuito allo sviluppo di consuetudini internazionali”. Francois Lefèvre, Storia del mondo greco antico, Einaudi, 2012.
[4] “Il rapporto Greci-barbari è infatti oltremodo marcato nella storia greca e contribuisce a costruire l’identità stessa dei primi in rapporto ai secondi. A partire dalle guerre persiane in qualche modo l’etnico Elleni acquista valore e importanza proprio nel confronto forzato con il nemico persiano sentito come irrimediabilmente inassimilabile per cultura e per leggi. Da allora in poi i Greci impararono a guardare agli “altri” per affermare la propria superiorità, la propria vocazione alla libertà, l’innata predisposizione all’ordine e alla forma associata. Il confronto portava in realtà alla definizione di sé”. Federica Cordano, Le parole chiave della storia greca, Carocci, 2008.
[5] “In parte grazie anche alle punte più avanzate del pensiero filosofico, tra V e IV secolo si registra un’apertura verso un atteggiamento meno razzistico nei confronti dei barbari. Senofonte, storico coevo, poteva celebrare nel re persiano Ciro il giovane il modello perfetto del “greco di cultura”, ovvero del barbaro capace di acquisire una seconda natura greca, attraverso un sano e proficuo confronto culturale. La stessa posizione assumerà Isocrate retore del IV secolo, quando affermerà che la grecità non si propone come fatto etnico ma come fatto culturale. Con l’ellenismo si giunge a un nuovo rapporto con gli stranieri. Si traducono testi giudaici, libici, asiatici in un’efficace per quanto imperfetta globalizzazione ante litteram”.Federica Cordano, Op. cit.
[6] Voce consultata sul Dizionario di storia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2010.
[7] “Un Ateniese declina la sua identità fornendo il suo nome, quello del padre (patronimico) e soprattutto il suo demotico, che conserva anche in caso di trasferimento di abitazione. I meteci (stranieri residenti) devono anch’essi iscriversi in un demo di residenza”. Francois Lefèvre, Storia del mondo greco antico, Einaudi, 2012
[8] Omero, Iliade, III, a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio, 1990.
[9] Omero, Odissea, VII, a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio,1994.
[10] Sul vincolo di ospitalità vedi anche Erodoto, Storie, II, 182; IV, 154; in particolare in V, 63, viene fatto notare che il vincolo può essere rotto di fronte alla volontà di una divinità.
[11] Omero, Odissea, X, cit.
[12] ivi.
[13] Omero, Odissea, XIV, cit.
[14] Omero, Odissea, XIV, cit.
[15] Omero, Odissea, XIV, cit.
[16] Omero, Odissea, XVII, cit., «Antinoo, non è bello colpire un viandante infelice. Sciagurato, e se fosse uno degli dei celesti? Simili a stranieri di altri paesi anche gli dei, assumendo forme diverse, vanno per le città a vedere se gli uomini sono giusti od ingiusti».
[17] Omero, Odissea, XXII, cit.
[18] Cfr. Mauro Corsaro, Luigi Gallo, Storia greca, Mondadori, 2010, Cap. 3.5..
[19] Erodoto, Storie, I, 146; III, 57; V, 67; VII, 197.
[20] Jean-Pierre Vernant, L’uomo greco, Laterza, 1997.
[21] Dalla voce “parassiti”, Enciclopedia della scienza e della tecnica Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2007.
[22] Domenico Musti, Storia Greca, Laterza, Bari, 2001.
[23] Ricordiamo gli studi di Carl Gustav Jung (1875-1961) sulla archetipica, ossia tutti quei motivi che in modo costante e ricorrente danno forma ad aspetti fondamentali dell’esistenza umana; motivi che rimandano ad immagini primordiali, a modelli originari di comportamento. Costanti archetipiche che, ritrovate nei testi letterari, esprimono connessioni profonde e universali gli uomini.
[24] Marcel Mauss, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi 1965
Grafica: (c)Giorgio Ruffa
Marisa Verna Università Cattolica 7 mesi fa
Molto interessante, una sintesi completa e al contempo accessibile. sempre difficile da ottenere. un concetto su cui vale la pena riflettere in epoca contemporanea