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Il racconto rivelatore

Il racconto rivelatore

Pubblicato 26 set 2022 Aggiornato 26 set 2022 Cultura
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Il racconto rivelatore

Ho scritto questa storia ispirata da Poe. Coltivo sempre la speranza che l'autore del misterioso biglietto, train-d'union di tutti i racconti postati in questa creative room, possa rivelarsi. 

 

Nello studio illuminato da una luce fioca, stavo leggendo al pc un racconto di Poe, Il cuore rivelatore.
Il protagonista della storia aveva un udito eccezionale ed era ossessionato dall’occhio dell’anziano datore di lavoro: un occhio d’avvoltoio, malefico, blu pallido con sopra una macchia. Ogni volta che quell’occhio indugiava su di lui, gli si gelava il sangue. Quello sguardo gli provocava un terrore al limite della sopportazione, tale da portarlo fino alla decisione più estrema: progettare l’assassinio del vecchio per liberarsi per sempre dall’occhio maledetto. Il delitto veniva calcolato lucidamente, con attenzione maniacale, nel silenzio della notte dove anche il più piccolo rumore, il fruscio impercettibile potevano scatenare le paure più autentiche.  
Durante la lettura credetti di udire, come il protagonista, la tensione nel respiro affannato del vecchio e la paura nel suo battito cardiaco accelerato. Una volta colpito a morte, percepii le sue pulsazioni affievolirsi sempre più, fino a spegnersi del tutto. 
Il racconto mi aveva così coinvolta da lasciarmi turbata e, quando mi decisi a scrivere una storia a mia volta, il rumore dei tasti pigiati sulla tastiera mi sembrò strano, ingigantito. E, dopo appena tre righe di scrittura, il cursore parve fuori controllo: scattò in avanti percorrendo tutta la pagina e poi giù, rapido, fino a riempire pagine e pagine di nulla, per bloccarsi solo quando la mia mente sbalordita si decise a guidare il dito a schiacciare Esc. 
Qualcosa non andava, o forse era solo suggestione provocatami dalla lettura. Mentre pensavo che avrei potuto sfruttare l’atmosfera per scrivere la storia, un frullio raggiunse le mie orecchie. Non era il vento nel camino, né il lamento del gatto del vicino. Ipotizzai con apprensione che un topolino stesse scorrazzando sulle travi del tetto a vista. Per Poe una cosa del genere non avrebbe sortito alcuna reazione, ma nel mio caso era tutt’altra questione: detestavo i topi e tutti gli animali luridi e scorrazzanti. Nonostante un’infanzia passata a rivedere più e più volte cartoni animati con simpatici topolini, la visione in età adolescenziale di Indiana Jones e i suoi duemila ratti mi aveva traumatizzata. E più avanti altre pellicole horror ne avevano amplificato il ribrezzo. 
Ispezionai a lungo le travi, compatibilmente con la debole luce che le illuminava e poi, non trovando traccia di intrusi, mi ricollocai davanti al computer con l’intenzione di riprendere a scrivere. 
Sei righe di caratteri ‘O’ che io NON avevo digitato e un cursore lampeggiante mi sfidavano minacciose dal video. Pigiai Canc all’istante per eliminare quell’inquietante visione ma, di nuovo, il cursore impazzito si lanciò in una corsa perdifiato verso il basso, ignorando i miei comandi. 
Chissà se qualcuno, vedendo quella scena, avrebbe potuto sentire il mio battito affrettato, rivelatore della paura che mi stava assalendo? Non avevo schiacciato tasti sbagliati e nemmeno fatto cadere qualcosa sulla tastiera… cosa diavolo stava accadendo? Il topo stava rosicchiando i cavi? Mi lanciai alla ricerca di una torcia, inciampando su una ruota della sedia che si rovesciò a terra con un grosso baccano. Con un piede dolorante, riuscii infine a illuminare retro della scrivania e soffitto: nessun segno di manomissione o tracce del passaggio di roditori. 
Riposizionai la sedia e sospirando tornai al computer. Avrei dovuto selezionare le mie letture, pensai, o almeno riservare quelle più disturbanti ai momenti in cui non ero in casa da sola. 
La tranquillità fu di breve durata, perché tornò quel rumore. Un impercettibile sbattimento d’ali, un brusio, questa volta non dal soffitto ma dal pavimento. Il mio cuore si agitò ancora. Riagguantai la pila e scandagliai il pavimento come un agente della scientifica nella scena di un crimine.
Poi lo individuai. Un tafano, uno stupido insetto. La mia storia di paura stava prendendo risvolti comici. Con tutta probabilità anche Poe si sarebbe fatto una grassa risata. Rinunciai ad eliminare l’intruso e ripresi a scrivere un po’ più serena.
Giunta alla conclusione del racconto, che per i toni sarebbe rientrato in una raccolta rosa, meditai sul titolo da dargli e scelsi 'Lei è la cosa più bella che ho visto oggi'. Ma prima di digitarlo un ronzio mi segnalò il volo del tafano: circumnavigò la plafoniera, planò diretto sulla mia mano, vibrò appena le ali e poi mi colpì. 
La sua puntura mi arrivò come una scossa.  Feci un salto sulla sedia scuotendo forte la mano, il bastardo colpì il pavimento finendo stordito a pancia in su. Ben gli stava. La mano iniziò a dolermi e a pulsare e poco dopo la vidi gonfiarsi a una velocità sorprendente. Forse era una forma di allergia, non ero mai stata punta da un tafano prima di allora. Digitai sul portatile alla ricerca di metodi per alleviare il fastidio delle punture, tra le tante informazioni trovai una frase che non avrei mai voluto leggere: i tafani sono in grado di trasmettere agenti patogeni, causa di gravi malattie.
Cercai d’ignorare ciò che avevo appena letto, ma non potei ignorare il cursore che partì ancora per la direttissima, stavolta a causa del dito della mano offesa, immobilizzato e senza controllo su una barra spaziatrice abbassata. Guardai con orrore la mia mano lievitata come una mammella di vacca. Un attacco di panico mi attanagliò, paralizzando il mio tentativo di recuperare il cellulare, un dolore mi si propagò nel petto e mi inchiodò alla sedia, lasciandomi in iperventilazione e col cuore tachicardico.
Le ultime immagini che vidi prima di morire furono il movimento ondulatorio del tafano tornato in posizione e lo schiudersi delle sue ali. 
Poi il volo verso la luce.
S.B.
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