Il Coraggio di Essere Buoni
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Il Coraggio di Essere Buoni
Io vengo da Casal di Principe, una piccola cittadina sperduta nell’entroterra casertano nota al mondo per i fatti di cronaca che hanno contribuito a derubricare la criminalità organizzata ivi esistente da articolato sistema di esercizio del potere socio-politico a semplice tratto endemico della popolazione, a tutto vantaggio di chi ha speculato e ancora specula sulle nefandezze commesse a danno della povera gente. Qui i cittadini comuni hanno sempre preferito la modestia della vita quotidiana alle quisquilie dei salotti agghindati di strass e pailettes dove si giudica la loro moralità, che anzi viene trasmessa come valore alto e indefettibile sin dall’infanzia. Io stesso ho ricevuto l’educazione spartana tipica della mia terra, che doveva riuscire nell’arduo compito di conciliare lo sviluppo pedagogico dei ragazzi con la loro tutela dai pericoli sociali sempre a portata di mano.
A tal proposito mi tornano in mente le parole di mia nonna Angela, la quale mi ripeteva come un mantra di “avere sempre il coraggio di stare dalla parte dei buoni”. A qualcuno sembrerà contraddittorio, strano per certi versi, che si parli di “coraggio” nello stare dalla parte dei buoni. Appare scontato, ma in un contesto come quello in cui sono cresciuto, dove il confine tra “bene” e “male” è molto labile, ciò che determina la tua collocazione in uno dei due schieramenti è il modo in cui ti comporti quando tutti hanno possibilità di rendere conto delle tue azioni.
Più tardi con l’età ho capito il senso delle parole di mia nonna, nonostante mi fossi sempre prodigato a metterle in pratica in maniera scrupolosa basandomi soltanto sulla fiducia e sul senso di rispetto che nutrivo nei suoi confronti. Mia nonna voleva dirmi che in una società come la nostra era semplice, semplicissimo, fare scelte sbagliate, perché a fronte di un’eterogeneità di contesti, situazioni ed obiettivi, le opportunità erano veramente poche. Così poche che talvolta erano veicolate in un’unica direzione. Il suo monito serviva a mettermi di fronte alla palestra della vita. Quella, per dirlo alla Wilde, che prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione: “Qui gli errori si pagano a caro prezzo, anche nelle cose più frivole. Ecco perché devi avere il coraggio di non farti tentare dall’avere tanti soldi in tasca o atteggiamenti di superiorità nei confronti degli altri. Qui i buoni sono le persone semplici che lavorano e possono dormire sonni tranquilli la notte, nonostante le difficoltà della vita”.
Mi ritengo fortunato ad aver ricevuto questa forma mentis, è stato il dono che mi ha permesso di diventare intellettualmente indipendente e la guida che mi ha impedito di inerpicarmi nella trappola dello sfarzo, della gloria fittizia, dei sentieri basolati d’oro che terminavano il proprio corso sul ciglio del burrone. Potrei raccontare tanti episodi sul perché, in un mondo di tentazione, sia sempre stato importante fare appello alla mia integrità morale, ma ne menzionerò uno in particolare, nonché il primo del quale ho memoria: era nel bagno della scuola, nel quale mi ero recato come solitamente facevo per prendermi una pausa dalla lezione di disegno. Entrai e fui subito investito dalla cappa di fumo che, involontariamente, avevo attirato verso di me aprendo la porta e lasciando passare l’aria. Mi trovai di fronte un ragazzo più grande, che tutti conoscevano e tenevano alla larga, cercando di non prestargli mai confidenza. Se ne stava appoggiato al muro di schiena con la gamba piegata, la mano sinistra nella tasca della felpa, il cappello tirato su, e con la mano destra teneva la sigaretta tra le dita. Mentre tossivo mi avvicinai al lavabo per pulirmi le mani dai gessetti che pocanzi avevo utilizzato, con il fare schivo di chi si sente osservato da uno sconosciuto con l’aria apparentemente minacciosa. Mi lasciò fare per un po’, ma appena ebbe contezza che stessi per uscire dal bagno mi pose una domanda della quale conosceva già la risposta: “Ma tu fumi?”.
Tentennai giusto qualche secondo per elaborare le idee, in cerca della soluzione migliore che mi avrebbe evitato eventuali impicci, ma finì per dire la cosa più logica: “No, non fumo”. “Dovresti provare, sai? Lo fanno tutti i ragazzi più grandi”, mi rispose prontamente. In quel momento mi balenò in mente di dargli una possibilità, dopotutto cosa avrebbe potuto farmi un tiro di sigaretta? Riflettendoci bene tuttavia mi sentivo “costretto” a farlo perché ero in soggezione, avevo paura di possibili ripercussioni e stavo cercando di chiudere la pratica nella maniera più agevole possibile solo per gratificare qualcuno che voleva impormi il suo gioco. Mi venne spontaneo demandare la decisione a forze che agivano fuori dalla mia sfera di influenza, all’entità assimilabile al “deus ex machina” della vita di un giovane adolescente, certo che lui avrebbe capito: “Mio papà non vuole”, risposi. Grave errore di valutazione il mio, dettato dall’inesperienza e dall’ingenuità di chi pensa il mondo funzioni solo sulla base della propria percezione delle cose. Del resto come poteva capirmi una persona che non conosceva la propria figura paterna se non solo sulla base dei consigli che gli venivano trasmessi tramite un interfono? Ho scoperto più in là che dietro all’ostentazione di non avere un padre presente, che ne faceva motivo di vanto, c’era la rabbia di non poter godere degli affetti familiari come tutti i nostri coetanei. E quella rabbia andava in qualche modo dissipata, anche in modi poco “ortodossi” . Il mio rifiuto ad unirmi al “club dei grandi” venne perciò interpretato come un atto di lesa maestà, e passai le settimane successive a sorbirmi gli sfottò di tutti i ragazzini della scuola fomentati a dovere per l’occasione.
Temendo di non sopportare più a lungo la situazione mi andai a rifugiare, per l’ennesima volta, nelle parole di conforto di mia nonna, la quale, ascoltata la vicenda, trovò in un battibaleno la soluzione: “Fallo diventare tuo amico”. Pensai che la nonna non avesse capito ciò che le avevo appena spiegato, quindi richiesi per conferma: “No, no, ho capito bene! Deve diventare tuo amico!”. “E perché deve diventare mio amico?”, le domandai piccato. La risposta fu la lezione di vita che sarebbe diventata il leitmotiv di tutto il mio percorso di crescita umano, culturale e sociale: “Perché devi sempre dare alle persone la possibilità di scegliere, devi offrire loro un’alternativa”.
Ho maturato l’idea che la filosofia socratica, con secoli di anticipo, avesse dato una spiegazione più che esaustiva al dilemma umano del libero arbitrio: il “male” altro non è che l’ignoranza del bene. L’uomo è endemicamente buono, ma i costrutti della società lo mettono nella condizione di poter scegliere anche il male. Per questo bisogna creare delle alternative, per fare in modo che chiunque abbia la possibilità di scegliere di operare per il bene: quello proprio, quello altrui, quello della collettività.
Capii da quella circostanza che il modo di comportarsi di quel ragazzo era l’esternazione di un malessere interiore e seguendo il consiglio di mia nonna strinsi amicizia con lui. Per tutto il prosieguo delle scuole medie io ero stato l’alternativa al percorso che la società aveva disegnato per lui soltanto per essere “figlio di”. Alle scuole superiori scegliemmo indirizzi diversi e ci perdemmo di vista. Più tardi, in età adulta, mi capitò di leggere sul quotidiano il suo nome all’interno di una retata della Polizia tesa a sgominare un gruppo di estorsori del clan. Ne dedussi che negli anni a seguire, accantonata la nostra amicizia, nessuno gli avesse più offerto un sentiero lontano dal ciglio del burrone e che quindi, in preda alla solitudine, fosse ritornato sui suoi passi consapevole di caderci dentro.
Oggi, con qualche anno e un po’ di saggezza in più, voglio guardare con speranza al futuro di questa terra, consapevole che tracciare percorsi diversi non solo è possibile, ma necessario. Tanto quanto lo è ispirare gli altri a percorrerli.