Un’applicazione concreta del principio di eguaglianza e illegalità
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Un’applicazione concreta del principio di eguaglianza e illegalità
LEONARDO LEVISSE
Un’applicazione concreta del principio di eguaglianza e illegalità
Se la legge è davvero “eguale per tutti”, applicarla e rispettarla, e quindi controllare e vigilare sulla legalità, significherà già di per sé garantire l’eguaglianza. In altre parole, legalità ed eguaglianza (pur con alcune integrazioni riguardo alla seconda di cui si dirà alla fine) diventano sinonimi, così come, al contrario, l’illegalità, la violazione di una norma valida per tutti, costituisce discriminazione e presupposto inevitabile di ingiustificate disparità di trattamento, oltre che offesa ai diritti destinati a essere tutelati dalla norma violata. Ciò risulta in modo lampante quando, ad esempio, in un concorso pubblico indetto per l’assunzione di nuovo personale, o in una gara per il conferimento di un appalto per un’opera pubblica, i vincitori non siano in possesso dei titoli e/o delle capacità richiesti dalla legge, e nonostante ciò siano preferiti ad altri cittadini idonei e di loro ben più meritevoli. È altrettanto evidente poi che se il riconoscimento di un diritto, pur legittimamente esistente, non viene praticato con la stessa efficienza, regolarità e successione temporale nei confronti di tutti coloro che ne abbiano titolo, ma, eventualmente anche senza nessun rispetto dell’ordine delle richieste, soltanto “a vantaggio” di alcuni di essi, probabilmente con l’intenzione di ottenerne ingiustamente la gratitudine se non la “obbedienza clientelare” e addirittura la “fedeltà”, l’effettività del principio di legalità, e l’esigenza egalitaria a esso connessa, risultano compromesse. Sulla spinta della violazione delle leggi, e del sacrificio del principio di eguaglianza che ne regola l’intero sistema, proliferano così anche le attività criminali che dalla illegalità diffusa e dalla degradazione dei diritti dei singoli traggono la loro forza e legittimazione. Esse poi si traducono in una concreta compressione della libertà degli individui che, a causa del disconoscimento dei loro eguali diritti, subiscono una limitazione che compromette la dignità umana. Nei suoi cento giorni trascorsi da prefetto di Palermo (prima di venire barbaramente assassinato dalla mafia, assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo) il generale Carlo Alberto dalla Chiesa chiarì nettamente il legame esistente tra degradazione dei diritti, conseguenti diseguaglianze e criminalità mafiosa. Questa fu una delle sue dichiarazioni rimaste impresse nella memoria collettiva: “Sono convinto che con un’abile, paziente, lavoro psicologico si può sottrarre alla mafia il suo potere. Ho capito una cosa molto semplice e forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati…” (intervista di Giorgio Bocca pubblicata su “la Repubblica” del 10 agosto 1982). Si doveva quindi operare per arrestare il degrado dei diritti in favori: ripristinare cioè la legalità e, con essa, ineluttabilmente, l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, e la loro libertà dalle pressioni criminali; rompere il legame tra ciascun cittadino cui lo Stato non garantisce l’eguale esercizio dei diritti fondamentali, e organizzazioni criminali che invece asserviscono a sé il cittadino al quale fanno ottenere ciò che in realtà gli spetterebbe come un normale diritto, nella forma di un favore a lui specificamente elargito, così a caro prezzo (appunto la dipendenza dalla mafia, come disse il generale dalla Chiesa). Bisogna quindi impedire che i diritti negati ai cittadini siano inesorabilmente intercettati e trasformati in favori, come tali fattori di ineguaglianza e asservimento. Da tale fondamentale, e talvolta gravemente trascurata, intuizione così efficacemente declinata nelle parole del generale dalla Chiesa, consegue un corollario gravido di significati: se cioè è vero che il degrado dei diritti in favori si compie attraverso la mediazione illegale di un potere mafioso, o anche semplicemente, se così si può dire, corruttivo (in quanto eventualmente operante al di fuori dei tradizionali schemi delle associazioni di tipo mafioso), implicando, fra le altre cose, il sacrifico del principio di eguaglianza (quanto meno, nella più semplice delle ipotesi, per il differente trattamento riservato agli altri cittadini non beneficiari del favore, e come tali quindi accantonati tra i soggetti cui non vengono tempestivamente e adeguatamente “assicurati” i loro diritti), si può senza dubbio affermare che sussiste una connessione diretta e necessaria, anzi una vera e propria compenetrazione, tra diritto del singolo e principio di eguaglianza. Si deve cioè ribadire che senza il rispetto del principio di eguaglianza il diritto soggettivo scompare come tale, rischiando di apparire, e in qualche modo di diventare, un privilegio, un sopruso nei confronti di tutti coloro che ne risultino ingiustamente e contra legem di fatto esclusi. Trasformando il diritto di un cittadino in un favore non solo quindi si viola la libertà e dignità del medesimo cittadino, ma si giunge perfino col porne l’attuazione al di fuori del circuito della legalità. Si può quindi affermare che l’eguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge costituisce una qualità intrinseca non solo della singola legge, ma anche del diritto riconosciuto da questa, che ove non assicurato a tutti, cessa di essere tale e cambia la propria natura in favore perdendo così la sua stessa legittimazione. Infatti una legge di fatto “non eguale” – così come gli eventuali diritti che essa riconosca o attribuisca – non può essere tale perché priva di una delle sue fondanti qualità.