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IN FUGA
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IN FUGA

Pubblicato 7 mag 2023 Aggiornato 7 mag 2023 Cultura
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IN FUGA

Cap I




           Non voleva farlo mai più. 
Sicuramente non per rubare o imbrogliare come voleva lo zio.
Gli faceva male la testa dopo, per ore a volte, dipendeva da quanto forte spingeva. E gli colava il sangue dal naso.
«Ti rimando da quella troia di tua madre che non ti ha voluto.», aveva detto per l’ennesima volta lo zio prendendo dal cassetto della scrivania alcuni fogli che gli aveva sventolato sotto il naso, come altre volte in passato. Non era mai riuscito a leggerli quei fogli, nemmeno quando gli zii erano fuori casa, perché quel cassetto era sempre tenuto ben chiuso a chiave.
«Domani torniamo in quella gioielleria e se non li butti giù come sai fare tu ti ammazzo di botte e ti rispedisco da quella puttana.»
E allora lui si era arrabbiato a sentire chiamare ancora così la sua mamma e aveva spinto, un po’ più forte del solito. Lo zio era andato giù come una marionetta a cui avevano tagliato i fili. Cadendo aveva fatto un gran fracasso perché aveva trascinato con sé la vecchia lampada a piantana col paralume in metallo che poi aveva spaccato la vetrina della piccola libreria di quella stanza. La zia era corsa in quella stanza e aveva capito subito tutto. Lo aveva guardato con occhi cattivi.
«Tu, piccolo mostro…»  aveva cominciato a dire puntando verso di lui un dito accusatore e lui aveva spinto, piano però, anche se la zia era crollata allo stesso modo dello zio.
In casa non c’era nessun altro perché Mike e Jordan, i suoi fratellastri, non erano ancora tornati da scuola.
Guardò l’ora al piccolo Timex che portava al polso destro e che si era comprato a 19.95 dollari con i guadagni di piccoli lavoretti che faceva ai vicini di casa: un quarto alle dodici. Non sapeva quanto tempo Greg Muller e sua moglie Greta, lo zio e la zia come si era imposto di pensarli essendogli impossibile immaginarli come genitori, sarebbero rimasti svenuti, ma di sicuro tra poco più di un’ora Mike e Jordan sarebbero tornati a casa e allora sarebbe stato troppo tardi. Non avrebbe avuto mai il coraggio di spingere col pensiero contro di loro e certamente i due gliele avrebbero date di santa ragione, come era successo tante volte. Mike soprattutto era grosso e assai alto per i suoi quattordici anni ed era cattivo quando picchiava, cercava sempre di colpirlo al viso. Una volta, un paio di mesi prima, Mike lo aveva trovato in veranda che leggeva un suo fumetto e, dopo averglielo strappato dalle mani, lo aveva colpito al volto con un pugno che lo aveva mandato a sbattere con la testa contro uno dei paletti di ferro che reggevano il piccolo dondolo su cui la zia sedeva a leggere i suoi romanzi d’amore fumando una sigaretta dietro l’altra. 
«Se tocchi un’altra volta una cosa mia ti spacco la faccia», gli aveva detto con una espressione così corrucciata che aveva temuto che da un momento all’altro tutti i brufoli che aveva sulla fronte e sulle guance avrebbero cominciato a sprizzare pus. «Ed è meglio per te se dici a papà che sei caduto da solo», aveva minacciato. Gli si era gonfiato il labbro e parte della guancia e aveva riportato un piccolo taglietto alla nuca. Non aveva pianto però, lui non piangeva mai e pensava di non esserne neanche capace. 
Cinque minuti persi, gli disse il Timex. Si chinò sul corpo dello zio e come aveva visto fare tante volte nei film polizieschi che gli piacevano da matti, mise due dita sul collo dell’uomo per sentire il battito cardiaco. Alla zia non ne ebbe bisogno perché la sentiva russare. Succedeva a volte, quando stringeva la testa appena un poco che le persone si addormentassero. Ora tutto dipendeva da quelle carte. La sua intera vita futura dipendeva da quelle carte. Aveva nove anni e anche se sapeva di essere molto più intelligente dei suoi coetanei non avrebbe potuto neanche immaginare una fuga da quella casa, da quella famiglia che non lo amava, senza un obiettivo da raggiungere. 
Era stato adottato dai Muller cinque anni prima, appena compiuti i quattro anni e gli erano bastate poche settimane per capire che la sua vita in quella famiglia sarebbe stata un inferno. Certamente peggiore di quella vissuta nell’istituto in cui aveva vissuto da quando ne aveva memoria.
La chiave, gli serviva la chiave del cassetto.


     Luke era legato alla sedia con del nastro adesivo grigio. Le gambe strette ai piedi anteriori della sedia e i polsi tra loro, con le braccia che passavano dietro lo schienale. Un paio di strisce lo tenevano stretto alla sedia girando intorno al torace. E lo tenevano dritto anche quando sveniva. La faccia era gonfia e dal naso rotto continuava a colare un rivolo di sangue che poi si spandeva in piccoli spruzzi ogni volta che respirava. Un occhio, il destro, era tumefatto e la palpebra talmente gonfia da coprire l’orbita per intero.
«Tiragli un secchio d’acqua Rocky che la bella addormentata qui mi serve sveglia.»
Timoteo Ridley, ma se qualcuno lo chiamava col suo nome intero di battesimo se la vedeva brutta, era vestito come sempre con gran cura. Indossava un completo blu di Armani, una camicia azzurra cucita su misura e una cravatta con disegnini blu su fondo giallo di Marinella, una sartoria italiana che aveva conosciuto in un suo viaggio a Napoli e da cui si riforniva spesso.  Morbidissime scarpe nere di pelle di capretto completavano un look accurato da uomo d’affari, quale in effetti Tim Ridley riteneva d’essere.
Rocky spostò i suoi 120 chili con grazia inaspettata posizionandosi in maniera da evitare che qualche schizzo d’acqua colpisse di riflesso il suo capo, che nella sua testa era ‘quel cazzo di irlandese pazzo’.
«Bafta, vi grego bafta, vi ho detto la verità», le labbra gonfie e qualche dente mancante modificavano un po’ la pronuncia di Luke.
Ridley afferrò una delle sedie che erano lì e si sedette di fronte all’uomo legato scegliendo con cura una distanza tale che lo tenesse indenne dagli spruzzi di sangue che continuava a emettere parlando, ora più abbondanti per l’acqua che continuava a colargli dalla testa.
«Tu lo sai perché sei ancora vivo Luke?»
L’uomo scosse la testa ma nell’unico occhio buono corse una scintilla di speranza.
«E d’altra parte tu mi capisci Luke, io ti affido un piccolo quantitativo di coca da portare e tu e Bennicomecazzosichiamava incassate per me 12mila dollari. Poi Benni lo troviamo morto in un vicolo e a te ti becchiamo che tenti di scappare dalla città. Mettiti nei miei panni Luke –fece con tono quasi paterno- Cosa dovevo fare? Oh non è tanto per i soldi lo sai, non è una gran perdita per me, vorrà dire che al prossimo cambio di guardaroba comprerò un completo in meno.»
E si girò verso Rocky e gli altri tre uomini aspettandosi una risata, che puntualmente arrivò, per quella che pensava essere una gran battuta. Era convinto di essere spiritosissimo e tutti conoscevano quel suo vezzo, e persino Luke cercò di sorridere.
«È un fatto di credibilità, capisci? Se non ti faccio trovare da qualche parte morto e pestato a sangue cosa penserà la gente di me? Ah Tim Ridley, quel fessacchiotto di irlandese, gli si può fregare la grana senza problemi. La credibilità Luke in questo mestiere è essenziale.»
Uno degli uomini presenti rise ma Ridley lo fulminò con uno sguardo perché quella non era una battuta.
L’uomo legato continuava a scuotere la testa e farfugliava una serie di ‘no, no’ per dire che mai aveva pensato di fregare il suo capo.
«Il danaro non l’avevi con te, anche se questa cosa non ti avrebbe comunque salvato, però in effetti è un po’ strano per uno che scappa. E tu, l’unica spiegazione che hai saputo darmi è che tu e Benny avete visto un ragazzino in quel vicolo, forse accompagnato da un uomo poco distante e che ad un certo punto siete svenuti. Quando poi ti sei ripreso il tuo amico era morto e la borsa con i soldi scomparsa.»
Ora Luke annuiva, con tanta forza che uno schizzo di sangue finì sulla scarpa del suo torturatore che se ne accorse guardandola inorridito.
«Fa attenzione con questo cazzo di sangue», gli urlò contro poi tornando subito calmo e amichevole.
«Ora mettiti nei miei panni. Oh mamma mia forse è meglio di no –risate sghignazzanti- Tu al mio posto mi avresti creduto?»
Luke che oramai comunicava solo con cenni del capo non sapeva se muoverlo in senso di diniego per non farlo arrabbiare ancora di più o di assenso per confermare di aver detto il vero. E rimase allora fermo.
«E allora oggi ti sarebbe toccata la stessa razione di ieri e stasera una bel po’ di pallottole prima di portarti in discarica. Quelli che avrebbero dovuto capire avrebbero capito. Ah ma ti stavo spiegando perché sei ancora vivo vero? Per la mia passione per i quotidiani.»



      Marie Anne Foster era in pausa e fumava una sigaretta al mentolo. Aveva una bella figura, forse un po’ troppo bella al punto che aveva dovuto chiedere al titolare del locale di farsi spostare in cucina. Non passava giorno senza che qualcuno le desse una pacca al sedere o peggio e lei proprio non lo sopportava. Qualche volta aveva anche reagito ricambiando quella odiosa attenzione con un sonoro ceffone che avrebbe potuto mettere a repentaglio il suo lavoro.  Pete però era una persona perbene e sapeva che Marie non faceva nulla per attirare quelle indesiderate attenzioni. Aveva sempre spalleggiato le sue reazioni quando c’erano state, anche se, ovviamente, doveva mettere in conto che quei clienti non li avrebbe più rivisti nel suo locale.
Marie Anne lo aveva sentito che Pete era una persona buona e per questo aveva accettato il lavoro in quel fast-food e non negli altri in cui aveva provato appena arrivata a Denver. Lei riusciva a percepire delle cose e a capire il carattere, quasi a sentire i pensieri delle persone, a volte, specialmente se erano vicine. Non avrebbe saputo spiegare come accadesse, ma accadeva eccome. Per le persone quasi sempre era come se emanassero un odore, quelle buone sapevano di agrumi, arance, limoni e quelle cattive avevano come un odore di acido, come quello di certi disinfettanti con cui vengono ripulite le strade, le stazioni. Con il tempo aveva imparato a usare il suo radar olfattivo, così lo chiamava tra sé, e se voleva azionarlo le bastava essere a portata di sguardo e concentrarsi. Per le cose invece era diverso, aveva delle premonizioni, piccole intuizioni anche se non del tipo numeri della lotteria o un disastro aereo, però c’erano. Le capitavano anche in maniera involontaria ma se si concentrava riusciva quasi sempre a sentire quello che sarebbe successo di li a poco. Ora sapeva infatti che tra pochi secondi sarebbe uscito dalla porta Juan con la sigaretta tra i denti a chiederle se aveva da accendere e dirle qualcosa sul turno della sera.
«Digame si, digame si por favor, alma de mi vida.»
«Se la smetti di fare il buffone e mi dici cosa vuoi può darsi anche che ti accontenti.»
Juan aveva un buonissimo odore di mandarino.
«Questa sera sono di turno ma Graciella vuole che la porti al cinema e dopo lo spettacolo, sotto un manto di stelle, le dichiarerò il mio amor.»
«E allora per il bene di Graciella dovrei dirti di no, ma mi fai troppo pena e allora faccio cambio, domani però ti becchi mattina e il mio pomeriggio fino alle nove.»
«Mi hai salvato il culo pupa –disse abbassandosi la falda di un immaginario cappello da gangster- Ora dammi del fuoco che devo fumare.»
Marie Anne aveva finito i suoi dieci minuti di pausa e tra pochi giorni avrebbe finito anche i tre mesi che si era ripromessa di passare a Denver. Aveva esplorato la città in lungo e in largo senza trovare quello che cercava da anni. Sentiva che lo avrebbe trovato anche se a volte dubitava che quella sensazione provenisse da una vera e propria premonizione. Forse era solo il suo desiderio, la sua speranza che le procuravano quella sensazione, ma sapeva che doveva continuare a cercare. Sceglieva le città a caso seguendo un ordine senza un apparente senso. Ricordava benissimo la sera di circa sette anni prima, quando aveva deciso di cominciare la sua ricerca. Si era concentrata stringendo fortissimo gli occhi e poi aveva preso la penna che prima aveva poggiato sul tavolo di fianco ad una grande cartina geografica degli Stati Uniti. Aveva rigirato più volte quel foglio senza vedere quale verso adesso le fosse davanti e sempre con gli occhi chiusi aveva tracciato con la penna una specie di lungo serpente molto ondulato. Poi aveva aperto gli occhi e tracciato una serie di x. Denver era la X numero 31.
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