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NON VORREI ESSERE IN NESSUN ALTRO POSTO

NON VORREI ESSERE IN NESSUN ALTRO POSTO

Publicado el 31, may., 2023 Actualizado 31, may., 2023 Cultura
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NON VORREI ESSERE IN NESSUN ALTRO POSTO

Una tremenda notizia si sparge in un attimo: un uomo è finito sotto le rotaie.
Tutti ne parlano sul treno che mi porta al lavoro, anche sui social, al telefono, ovunque. 
Le voci si mescolano, le parole si confondono, fino a diventare per me un ronzio indistinto. Sento che mi sta per accadere qualcosa. Cerco di pensare ad altro ma non funziona. Il ronzio viene pian piano coperto da suoni che sento solo io. Sono nella mia testa ma non potrebbero essere più veri: lo stridio dei freni di un treno, il battito accelerato di un cuore in subbuglio, il respiro affannoso di qualcuno che sta per superare ogni limite, il rumore agghiacciante di ossa che si spezzano...            
E poi, un’immagine. Orrenda. Un ragazzo dilaniato mi appare davanti, coperto di sangue e senza più un torace, in piedi, come fosse vero.  
Agguanto i braccioli della poltrona e schizzo in piedi, soffocando un grido. L’immagine finalmente scompare, ma il mio cuore scalpita ancora, ho il respiro corto e tremo. Non riuscirò mai ad abituarmi: ad accettare che queste maledette visioni irrompano nella mia mente, così vivide da sembrare reali, così reali da sembrare persone in carne e ossa.
“Che succede? Non ti senti bene?”  È una donna dai capelli di un improbabile rosso, la vedo aggrottare la fronte mentre mi guarda, poi stringermi un braccio nella sua mano grassoccia. Cerco di riprendere il controllo, sfilo il braccio da quella morsa invadente e abbozzo un sorriso.
“Sto bene, grazie. Non si preoccupi, mi è solo venuta in mente una cosa importante” e con il cellulare in mano mi alzo e mi allontano da quella sgradevole voce che mi insegue: “Sembrava avessi visto un fantasma, ragazza mia!”
Sono impiegata in uno studio notarile parecchio distante da casa, per gli spostamenti prendo ogni giorno il treno. L’andata è sempre la parte più odiosa del viaggio, non so perché, ma tutte le volte mi sembra che duri più del ritorno. Da quando poi non riesco a dormire le giuste ore di sonno che dovrei, mi sento inquieta e sempre sulle spine. Questa mattina avevo portato con me un libro pieno di personaggi, nella speranza di astrarmi sufficientemente dalla realtà, ma una donna aveva presto interrotto la mia lettura: “Posso mettermi qui?”  Era sulla sessantina, i capelli di un rosso imbarazzante e bella in carne. Io le avevo accennato un sì, lei sorridendo si era seduta accanto a me. Avevo ripreso a leggere, ma da alcune righe prima, perché già avevo perso il filo. C’era un ragazzino con una decina di zii, nonni e parenti vari. I nomi erano tutti molto simili e stavo cercando di associare ogni nome a un’immagine per non dimenticarli. Finché, di colpo, il treno aveva rapito tutta la mia attenzione: una brusca frenata ci aveva bloccati in mezzo alla campagna. E per parecchio. Il tempo di avanzare distrattamente nella lettura, di occhieggiare alla ricerca del controllore, di ascoltare i discorsi dei passeggeri. E poi quella notizia, terribile.
.
Un giorno passeggiavo con Anna vicino a casa sua. Stavamo costeggiando un laghetto privato che circondava una villa, era inverno. Il lago era in uno stato di abbandono, col fondale scuro e la superficie coperta a tratti da rami e foglie. Una recinzione delimitava la proprietà e un cancello arrugginito ne consentiva l’accesso. Infilzato in una zanca metallica del cancello, pendeva un orsetto di peluche, come il premio di una giostra. Era grigio e sporco, forse una volta era stato bianco. Anna mi aveva raccontato che in quel lago era morto un bambino per un incidente e che da quella volta i proprietari avevano deciso di lasciare sempre un peluche appeso al cancello, per ricordarlo. Mi ero sentita subito invadere dall’angoscia e quando quel macabro feticcio aveva preso vita muovendosi verso di me, sorretto da un bambino grondante acqua che lo stringeva al petto, avevo lanciato un urlo tremendo. Anna aveva impiegato molto tempo per calmarmi. Alla fine mi aveva costretta a chiamare uno psicologo e a fissare un appuntamento.
La seconda volta era andata ancora peggio. Ero in pausa pranzo, con le colleghe avevamo deciso di mangiare all’aperto nei tavolini disposti davanti al pub, direttamente sulla strada. Stavamo discutendo di una causa, quando un rumore assordante ci aveva interrotte: la frenata di un’auto seguita da un botto e la visione raccapricciante di un ciclista sbalzato in aria come un pupazzo ci aveva lasciate di sasso. All’arrivo dell’ambulanza, un uomo mi era comparso davanti, all’improvviso. Indossava una tuta da ciclista, aveva una gamba, un braccio e la testa completamente insanguinati. Era apparso solo a me, nessun altro nel locale era saltato sulla sedia gridando. Non potrò mai dimenticare la forma della sua testa: sopra l’orecchio sinistro, il profilo rotondo del volto scompariva nel cranio, come un’eclissi di luna incompleta. Quando lo raccontai ad Anna, lei mi disse che forse lo psicologo non sarebbe bastato e che era arrivato il momento di trovarmi una distrazione.
.
Mi guardo allo specchio del minuscolo bagno del treno, sono pallida e ho gli occhi lucidi. Il mio cuore non cessa di battere all’impazzata. Il pensiero che sotto queste rotaie possano ancora esserci i resti di una persona mi fa stringere lo stomaco in una morsa dolorosa. Perché mi lascio invadere dalle emozioni negative e non ho controllo su di esse? Perché non so dare loro il giusto spazio? Sul lavabo vedo cadere due grosse lacrime. Sento che anche il treno singhiozza con me. E poi riparte. Decido allora di tornare al mio posto, asciugo le guance e cammino rapida, tenendo gli occhi sul telefonino per non incrociare gli sguardi delle persone. Torno a sedermi e mi nascondo dietro le pagine del libro, vorrei essere altrove, vorrei essere normale.
Lo psicologo a dire il vero aveva ricondotto il tutto alla normalità, quando mi aveva parlato di spiccata sensibilità emotiva. “È molto comune tra le donne. Tanto più spiccata, quanto più si è fragili” - aveva aggiunto. La cosa non mi aveva aiutata. Tra l’altro guardando su internet non avevo trovato nulla sul ‘vedere vittime di incidenti’. Invece, ironia della sorte, avevo scoperto che le persone con maggiore sensibilità emotiva provano più piacere nel fare sesso. Non poteva capitarmi quello? L’unica consolazione era stata sapere che la fragilità delle persone sensibili è solo apparenza, perché in realtà sono persone più creative, più empatiche e più intuitive rispetto alle altre. Devono solo imparare a non farsi sopraffare dalle emozioni. “Ma che posso fare, dottore? Non posso ignorare quello che vedo!”  “Non farlo. Osserva l’emozione che provi e descrivi quello che ti accade subito dopo. Per esempio: il cuore batte velocemente, le mani sono sudate, ho la nausea, ho paura… Così facendo, acquisisci consapevolezza e impari a prendere le giuste distanze. Una volta che avrai riconosciuto l’emozione, potrai imparare ad accettarla come parte di te, della tua sfera psichica.”
Belle parole. Vorrei vedere lui, con uno zombie davanti agli occhi, quanto riesce ad essere distaccato! 
Meno male che ora, alzando lo sguardo dalle pagine del libro che ho rinunciato a continuare, davanti ai miei occhi c’è un bel tipo che prima non avevo notato. Due occhi chiari seguono il video di un I-pad appoggiato alle sue ginocchia; le mani, illuminate dal video, sono bianche e affusolate, un tatuaggio gli sbuca dal polsino della camicia scura. Lui alza gli occhi dal computer e, contro ogni aspettativa, mi guarda e sorride. Anch’io gli sorrido in automatico, mentre mi chiedo il perché di quel gesto: magari avrà una spiccata sensibilità umoristica… “Cosa mi sono persa?” gli domando cercando di rubargli un altro sorriso. 
Lui alza appena le spalle, mentre la mia vicina di poltrona, venti chili e cinque sfumature di rosso in più di lui, risponde al suo posto: “È solo passato il controllore a dire di non preoccuparsi e che saremmo ripartiti subito. Non siamo riusciti a sapere niente di niente sull’incidente.” “Meglio così. Mi impressiono già abbastanza per conto mio.” mi sento rispondere.
Torno a cercare il suo sguardo, ma lo trovo intento a osservare il proprio polso che spunta dalla camicia. A poco a poco, si svela ai miei occhi il tatuaggio sottostante. È una parola: believe. Credi? Credere? Abbi fede? Un fan del telefilm? Comunque il tipo crede in qualcosa e sarebbe bello scoprire cosa. Lui chiude l’I-pad, si alza e si dirige verso la fine del vagone, ignaro della curiosità che il suo tatuaggio ha innescato in me. Mi alzo anch’io per raggiungerlo, pur sentendomi in imbarazzo.
“Ehi, scusa… posso vederlo?” gli domando indicando le lettere che risaltano sulla pelle chiara del suo polso. “Cosa…?” risponde lui con una voce roca come se si fosse appena svegliato. I suoi occhi sfuggenti si fermano un istante sui miei per poi tornare a perdersi dentro se stessi. “Scusa l’invadenza, ma ho notato il tuo tatuaggio e…” continuo, per poi pentirmene subito dopo. “Believe” esclama lui, ritrovando un tono di voce adeguato. Poi non aggiunge altro, come se dire a voce alta la parola tatuata equivalesse già ad esprimerne tutto il suo significato. “Cioè…?” insisto nonostante lui ora mi stia fissando con gli occhi diventati improvvisamente lucidi.
Dove sono finite tutte le mie accentuate doti intuitive? Il suo volto trasmette incomunicabilità anche a un cieco e io mi ostino ad importunarlo per una stupida curiosità, molto comune tra le donne così come lo è la maledetta sensibilità emotiva. Lui sospira, poi mi sussurra una frase che mai avrei immaginato di sentirgli dire: “L’ho tatuato quando credevo che la vita mi avrebbe sempre salvato.” Gli sfugge di nuovo un sorriso, ma ora riconosco che è più una smorfia che un sorriso, perché si spegne subito e i suoi occhi, abbassatisi a guardare a terra, si confondono col pallore del suo viso.  “E ora non lo credi più?” “Quando ho smesso di credere, ho smesso di vivere” mi risponde lui con un filo di voce, poi sbottona la manica della camicia e la alza: numerosi tagli disegnano una rete vermiglia sulla pelle chiara del suo braccio e una lunga, profonda ferita attraversa la cute con un rivolo nero e secco. Per la prima volta non provo paura, il cuore non mi martella in testa, nessun grido mi esce dalla bocca e nemmeno ho voglia di scappare. Sento solo tristezza per una vita spezzata, quella di chi ha cercato di non farsi sopraffare dalle emozioni negative, senza riuscirci. Lui allarga le braccia come ad arrendersi una volta di più e poi, prima di andarsene per sempre, mi regala un’altra frase, più preziosa: “Neppure la mia morte mi ha salvato. Ma forse può salvare te.”                                        
Lo guardo allontanarsi e poi sparire di colpo insieme alle immagini che filano veloci dai finestrini del treno.                                                                                                                                      In che senso la sua morte mi può salvare? Da cosa poi mi può salvare? Dalle mie ansie? Dalle mie visioni? Dalla mia diversità? Forse dovevo solo ‘acquisire la consapevolezza e prendere le giuste distanze’, come diceva lo psicologo, ma non della mia spiccata sensibilità emotiva, bensì della mia capacità, unica, speciale, che va ben oltre la sensibilità.                                                                                                                   
Torno al mio scompartimento. La signora dai capelli problematici mi guarda mentre mi siedo al mio posto, poi inizia a parlarmi come se non aspettasse altro da tanto tempo. La sua voce cantilenante e il rumore del treno mi cullano come una mamma premurosa. Resto immobile ad ascoltare i battiti regolari nel mio petto, poi chiudo gli occhi senza accorgermene e finalmente il sonno mi trasporta in un luogo di pace insperata, e davvero non vorrei essere in nessun altro posto.
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