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IN FUGA
IN FUGA terzo capitolo (vero)

IN FUGA terzo capitolo (vero)

Veröffentlicht am 10, Mai, 2023 Aktualisiert am 10, Mai, 2023 Kultur
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IN FUGA terzo capitolo (vero)

Cap III

Erano passati solo 5 minuti quando aveva tirato un grosso sospiro di sollievo vedendo l’autobus svoltare per Elm Street. Quel tempo di attesa gli era parso interminabile con gli occhi che vagavano senza posa tra le lancette dell’orologio, la strada da cui aspettava l’autobus e la casa da cui era scappato e nella quale non sarebbe tornato mai più. L’abitazione distava infatti appena un centinaio di metri dalla pensilina dove aspettava il bus ed essendo la strada bella dritta in quel punto rimaneva perfettamente   visibile. Aveva anche pensato di allontanarsi ancora di più, fino alla fermata successiva, ma aveva il timore che nel frattempo potesse transitare il bus costringendolo poi ad un’attesa più lunga. Per fortuna la strada che avrebbero percorso i suoi fratellastri era nel senso opposto a quello in cui si trovava e dunque se pure fossero tornati in anticipo lui li avrebbe visti e si sarebbe allontanato in fretta. Poteva anche succedere che lo zio o la zia si fossero risvegliati nel frattempo e sarebbero di sicuro usciti in strada a cercarlo, ma anche in quel caso riteneva di avere il tempo di notarli per primo e allontanarsi senza essere visto. Solo quando si fu seduto, verso il fondo dell’autobus però cominciò a respirare regolarmente.
Aveva agito di impulso quella mattina ma era tanto tempo che fantasticava su una fuga del genere. Non aveva un vero piano però e per quanto sapesse di essere decisamente più adulto dei suoi coetanei era pur sempre un bambino e non gli sarebbe stato facile andarsene in giro per l’America da solo senza farsi scoprire. Sperava con tutto il cuore che l’indirizzo della madre fosse non troppo lontano da lì, anche se temeva proprio di sì. Gli zii poco dopo averlo adottato si erano trasferiti in Arizona a Phoenix perché era morta una vecchia parente di zia Greta e le aveva lasciato alcuni beni tra cui la casa in cui abitavano. Magari nella cartella c’era anche il suo numero di telefono e avrebbe potuto parlarle. Non sapeva perché lo avesse abbandonato ma era sicuro che lei gli volesse bene. In ogni caso doveva fare attenzione e cercare di non ripetere più errori come quello fatto pochi istanti prima acquistando il biglietto. Per prendere le monete necessarie aveva tirato fuori dalla tasca i soldi che aveva e il bigliettaio lo aveva guardato sospettoso notando che aveva con sé diverse banconote per una somma certamente incongrua ad un bambino di nemmeno 10 anni. Certamente l’autista si sarebbe ricordato di lui quando fossero cominciate le ricerche, per cui decise di modificare il suo proposito iniziale e di scendere ad una fermata assai lontana dallo stazionamento degli autobus a lunga percorrenza, che avrebbe poi raggiunto a piedi. Adesso però tutto dipendeva da quello che avrebbe trovato in quella cartelletta che sfilò dallo zaino. Lesse in un lampo i tre fogli che conteneva.
Come aveva temuto la sua meta era distante migliaia di chilometri da Phoenix. L’Ospedale della Misericordia di Philadelphia dove era nato si trovava in Pennsylvania e l’orfanotrofio Figgerty in cui era cresciuto era a Boston a trecento chilometri da Philadelphia. I Servizi Sociali, con una procedura di urgenza fatta presso il Tribunale Minorile di Contea lo avevano affidato ancora in fasce ad una famiglia del posto in affido temporaneo mentre sua madre era ancora ricoverata in Ospedale in gravi condizioni. E poi dapprima in una specie di Casa Ricovero per neonati e infine al Figgerty in cui era cresciuto fino a che era stato adottato dagli zii. Persino la Procura che aveva sostenuto le ragioni della madre, ancora in coma farmacologico, aveva ritenuto che la stessa…in pericolo di vita e nemmeno maggiorenne non sarebbe stata in grado di prendersi adeguatamente cura del neonato. Visto e considerato che la stessa aveva subito la grave perdita di entrambi i genitori due giorni prima del parto a causa di un incidente d’auto. Probabilmente evento che aveva scatenato quel parto prematuro e così pericoloso. E nello stesso giorno era spirata la nonna materna, unica altra parente della partoriente.
Uno di quei fogli spiegava anche, ai suoi occhi, la ragione di quella adozione: gli zii avevano ricevuto dallo Stato un bonus di 3.500 dollari previsto in aiuto a chi volesse sottrarre quei bambini alle cure pubbliche e riceveva un sussidio di 400 dollari al mese per il suo mantenimento. Non c’era alcun indirizzo della madre e meno che mai il numero di telefono che aveva sperato di trovare. Il nome della madre, ogni qualvolta compariva in quelle righe era coperto da una cancellatura che lo rendeva illeggibile e una dicitura in calce ai fogli spiegava che tale omissione era a tutela della sua privacy ai sensi di una certa legge. Istintivamente Steven si trovò a passare il dito su una di quelle cancellature, come a voler fare una carezza a sua madre e il dito gli sembrò riscaldarsi, come se fosse esposto ad una fiamma. Provò allora a concentrarsi, un po’ come faceva per far addormentare le persone, e passò ancora una volta l’indice   su quella pecettatura.  Avvertiva come un rilievo, come se ci fosse al di sotto di quell’inchiostro una specie di scritta in rilievo e gli sembrò che il nome che riusciva a individuare fosse quello di Maria. Provò ancora a lungo cercando di ‘leggere’ anche il resto di quella cancellatura ma non gli riuscì di individuare altro. Era sicuro però che sua madre si chiamasse Maria e quando pronunciò quel nome appena sussurrandolo, visto nel nei sedili vicini c’era gente, avvertì come un bruciore sul petto. Istintivamente si toccò dove avvertì quella fitta e trovò che in quel posto poggiava la medaglietta che aveva indossato appena uscito di casa, l’unico ricordo di sua madre, come gli aveva detto il Direttore dell’orfanotrofio. Non aveva bisogno di guardare quella piccola medaglia perché sapeva benissimo che raffigurava una Madonna sorridente con in braccio il Bambino Gesù. Il nome della Madonna, lo sapeva era Maria.


Caffè San Marco, era scritto in un elegante e discreto corsivo sulle due grandi porte a vetro fumé del locale, benché non si trattasse di un bar ma di un eccellente ristorante italiano, forse il locale più chic di tutta la città. E facevano anche un ottimo caffè. Ridley non aveva avuto bisogno di prenotare perché per lui c’era sempre un tavolo libero e lì pranzava quasi ogni giorno. Avrebbe però incontrato il suo uomo nel piccolo dehors che si trovava nel cortile posteriore del locale che era stato sistemato come una specie di giardino d’inverno, chiudendolo con vetrate che ne coprivano l’intera superficie e pavimentandolo con un prato sintetico davvero elegante. Di sicuro non avrebbe pranzato col topo di fogna con cui doveva parlare. Mancavano cinque minuti alle 13 e non dubitava che il suo ospite sarebbe stato puntuale, per cui si sedette a un tavolino e, senza bisogno di ordinare nulla, un cameriere gli servì del Bushmills e acqua che era il suo aperitivo preferito. Bevendolo gli sembrava di sentire in bocca il sapore della vecchia e cara Irlanda. 
A metà della bevanda vennero ad avvisarlo che una persona chiedeva di lui e se potessero farlo accomodare. 
«Ma rimarrà a pranzo con lei?» chiese il cameriere atteggiando il volto ad incredulità assoluta per la sua stessa domanda.
«Certo che no, pochi minuti e lo mando via. Preparami il tavolo che arrivo subito.»
«Signor Ridley» disse l’uomo che atteso un suo cenno della mano si sedette di fronte a lui.
Ridley lo guardava con evidente disgusto, l’archivista del Daily Post sembrava veramente lo stereotipo del suo personaggio: capelli troppo lunghi e grassi appiccicati sulla testa, viso lungo e sfuggente su cui spiccava un naso affilato e un incarnato giallastro di chi vive sempre al chiuso. Jeans troppo larghi e un maglione sformato completavano un quadro per Ridley davvero disgustoso.
«Ti sei fatto desiderare Tom, e questa non è una buona cosa. Ti ho dovuto ricordare che hai con me un debito di 3.000 dollari che mi autorizzerebbe a farti spezzare entrambe le gambe dai miei ragazzi.»
«No signor Ridley, il fatto è che dalla Redazione mi chiamavano di continuo per delle ricerche…»
«Non mi interessano i tuoi problemi -tagliò corto il gangster- voglio che tu faccia una cosa per me e la faccia subito. Devi trovarmi nella cronaca locale e quella di cittadine in un raggio di circa 100 km. da qui, ogni notizia che faccia riferimento a un bambino e un adulto coinvolti, in qualsiasi modo, in furti o rapine nelle quali le vittime dicono di essere stati addormentati prima di subire quei reati. È tutto chiaro?»
«Sì -rispose l’archivista un po’ risollevato dal fatto che la richiesta del suo strozzino riguardasse qualcosa che sapeva e poteva fare facilmente- solo che se sapessi il motivo della ricerca, potrei indirizzarla meglio.»
Ridley alzò la mano e l’uomo si zittì.
«Verrà uno dei miei uomini alle quattro e mi aspetto che tu mi faccia avere dei risultati.»
Il pranzo era stato come sempre eccellente e abbondante, il caffè sublime corollario della cassata siciliana di chiusura. Aveva organizzato la chiacchierata con Luke per le 16,30 e gli restavano quasi due ore per fare un riposino. Al primo piano di quel locale c’erano quattro piccoli appartamentini uno dei quali riservato a lui, benefit del prestito di due milioni di dollari, poi diventato compartecipazione al cinquanta per cento di quell’esercizio, fatto quando i fratelli Carlino avevano deciso di ristrutturare completamente il vecchio ristorante facendolo diventare il gioiello che era adesso. E alla prima occasione avrebbe fatto in modo da diventarne l’unico proprietario, in fondo lui era un uomo d’affari.


Ancora qualche ora e quella lunghissima giornata di lavoro sarebbe finita. Non desiderava altro che tornare a casa e fare una lunghissima, calda, doccia per togliersi dalla pelle e dai capelli l’odore di unto che 14 ore di cucina le avevano appiccicato addosso come una seconda pelle. Non sarebbe neanche uscita quella sera e si sarebbe concessa una intera bottiglia di Falanghina ghiacciata mangiando cracker con qualsiasi salsa avesse in casa e guardando la tele fino a che non fosse crollata. Per Marie Anne in realtà quello era l’ultimo giorno di lavoro perché l’indomani il suo turno lo avrebbe fatto Juan e sabato sarebbe passata al locale solo per regolare i conti con Pete e salutare i suoi colleghi perché voleva partire di buonora. La attendeva un trasferimento impegnativo di milletrecento chilometri e voleva arrivare a Phoenix prima che facesse buio, La prospettiva di una nuova città da esplorare la rendeva sempre felice perché in cuor suo sperava sempre che la prossima sarebbe stata quella giusta. La giornata successiva sarebbe stata interamente dedicata ai preparativi per la partenza. Non le sarebbe occorso però molto tempo perché cominciando quella folle ricerca aveva deciso di viaggiare leggera, portando con sé il minor bagaglio possibile che consisteva in realtà in due grossi trolley, uno zainetto e uno scatolone che avrebbe sistemato con facilità nell’auto, una vecchia Mg decisamente messa male di carrozzeria ma con un motore ancora potente e affidabile. Non era giusto che le avessero preso suo figlio senza darle la possibilità di battersi per lui. L’avevano risvegliata dal coma farmacologico due settimane dopo il parto, quando i medici avevano ritenuto che il suo organismo fosse finalmente in grado di provvedere autonomamente alla sua esistenza. Aveva aperto gli occhi e chiesto del figlio, credendo che fossero passate appena poche ora dal parto. L’infermiera che era in stanza con lei in quel momento le aveva detto di aspettare che un medico fosse venuto a parlarle. Marie Anne aveva temuto il peggio. Avrebbe voluto ribattere qualcosa ma era così stanca che scivolò di nuovo in un torpore annebbiante. La mattina successiva però si svegliò sentendosi un po' più in forze e soprattutto più lucida per cui fece il diavolo a quattro, minacciando di staccarsi flebo e i vari monitor che la tenevano legata a quel letto se non fosse venuto subito qualcuno a parlarle.
«Finalmente si è svegliata la Bella Addormentata», disse un’infermiera accorsa alla confusione che aveva fatto. «Sono Louise Fletcher, la caporeparto, come posso aiutarti cara?»
«Il mio bambino, il mio bambino dov’è?»
«Per queste informazioni dovrai aspettare la dottoressa Brunner, l’abbiamo già mandata a chiamare e tra poco sarà qui.»
La donna si era intanto avvicinata ai monitor di controllo e controllato alcuni dati aveva cominciato a preparare una soluzione da inserire nella flebo.
«Ferma – gridò dal letto con un urlò che avrebbe voluto essere altissimo e invece uscì dalle sue labbra come un flebile lamento- Non mi date nulla vi prego, voglio sapere del mio bambino. Vi prego.»
«Va bene, facciamo un patto, se adesso ti calmi e lasci che noi ti curiamo ti dico subito di tuo figlio, va bene?»
«Si -disse e la voce le usci come se avesse in gola una manciata di sabbia- Come sta Steven?»
«Si, si chiama proprio così ed è stato battezzato qui in ospedale proprio col nome che volevi tu, il dottore se ne è ricordato. Il bambino sta bene ed è forte come un torello.»
«Battezzato? Ma da quanto tempo sono qui?»
«Questo è il 16esimo giorno mia cara.»
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