

World War Z (fanfiction)
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World War Z (fanfiction)
Castello Franco
[Mi trovo nell'antica città di castello franco, un piccolo borgo medievale dominato da un castello con un sistema difensivo massiccio formato da quattro mura alte oltre dodici metri, di epoca trecentesca. La struttura, a pianta quadrata, è protetta da sei torri poste ai suoi quattro vertici e in corrispondenza delle due porte principali. Un grande fossato circonda l'intera struttura ad una decina di metri di distanza dal perimetro delle mura. E' qui che incontro Marco, un artigiano la cui bottega è all'interno del castello, si dice, dai tempi di Dante e la cui tradizionale manifattura dei "Bottaioli" è tramandata di padre in figlio sin d'allora. Le vecchie mani, callose, stanche, non si allontanano mai dai martelli sparsi sopra al grosso tavolo da lavoro in legno per tutta la durata dell'intervista.]
-"Lo sa, è davvero difficile pensare che sia successo per davvero, a noi, quello che è successo. Le persone, il terrore. Quanta paura. Non penso che al mondo qualcuno abbia mai provato tanta paura nella storia. Eravamo assediati, chiusi dentro alle mura del castello. Nei libri di storia sono scritti i resoconti di molte battaglie, molti altri assedi, violenze inaudite, ma nulla di così terribile. Le macchine d'assedio usate all'epoca, i trabucchi e le catapulte, erano strumenti pur terribili ma avevano dei punti deboli, se non erano le falle nelle strutture di legno era la carne morbida di chi le doveva spingere fino a ridosso delle mura. Avevano tutti un punto debole, e trovarlo è stata la chiave di volta per vincere ogni battaglia, la soluzione che ha permesso al castello di ergersi in piedi oggi. Noi abitanti del castello lo sappiamo bene, e siamo orgogliosi delle prodezze e dei sotterfugi dei nostri antenati. Ma questo assedio era diverso. Questi assedianti non avevano paura, non soffrivano la fame né il freddo. Avevano tutto il tempo del mondo. Ci aspettavano, vagando oltre i fossati, sbattendo l'uno contro l'altro, facendosi trascinare dalla corrente del fossato come se niente fosse. All'inizio lanciavamo dardi, sassi, sedie, copertoni, qualsiasi cosa potesse ucciderli o perlomeno ferirli. Ma nulla. Abbiamo provato con l'olio bollente, incendiandoli, ma nulla. Tutto uno spreco di buon olio da cucina, tutto uno spreco di legna da ardere. Loro si rialzavano, imperterriti, instancabili. E avevano tutto il tempo del mondo."
-"Eravate in molti a rifugiarvi dentro alle mura?"
-"Diciamo che nessuno credeva che i morti si sarebbero alzati in piedi per camminare nelle strade. Vedevamo quello che stava succedendo in Cina, ma dopo pochi giorni le comunicazioni si sono interrotte e ci siamo convinti che non fosse nulla, che non stesse succedendo per davvero o almeno che non sarebbe mai arrivato fino a noi. D'all'atra parte del mondo. Noi più anziani venivamo presi in giro dai giovani quando ci vedevano indaffarati a chiudere le vecchie brecce nelle mura del castello, i piccoli passaggi che la gente si era ricavata durante le guerre per fuggire più velocemente dai bombardamenti o per contrabbandare sigarette. Noi stessi lo facevamo più per occupare il nostro tempo libero in compagnia che per paura della piaga. Nessuno si aspettava fosse una cosa reale, un problema insomma. C'erano tanti paesi a dividerci dalla Cina, eppure da un giorno all'altro ci siamo trovati invasi. Si dice che i primi infetti fossero membri degli equipaggi delle navi cargo che approdavano nei più grandi porti italiani, Trieste, Genova, si dice che è partito tutto da lì. Trieste è a tre ore di auto da qui, e Genova ne dista sei. Giusto il tempo che impiega una persona infetta a trasformarsi. Durante il Grande Panico abbiamo visto alla televisione tutte quelle auto incastrate per chilometri e chilometri in autostrada, persone in fuga bloccate all'interno dei valli di montagna o nelle gallerie, senza via di fuga. Le macchine con infetti moribondi a bordo venivano bloccate fisicamente incastrando altre auto o camion contro le portiere, in modo che non potessero fuggire neanche dai finestrini aperti, bloccando insomma chiunque all'interno. Finchè la radio funzionava si sentivano storie di famiglie bloccate in auto con a volte una madre, un padre o addirittura un figlio infetti, e gli altri familiari gridavano, pregavano, aspettavano di venire uccisi a morsi dentro a quella bara immobilizzata, davanti al pubblico di profughi che continuava a marciare lontano, senza fermarsi. Quei mostri li portammo noi qui, li portammo in auto per tutto il mondo, a questo modo, salvando i feriti, facendoli viaggiare in auto e dando loro la precedenza, trasportavamo la piaga molto più velocemente di quanto non potesse muoversi da sola. I profughi da Trieste ci impiegavano cinque giorni a camminare fino da noi, e loro sapevano dove andare, avevano scelto la loro meta razionalmente. I mostri, vagabondando a casaccio, ci avrebbero impiegato almeno una settimana a raggiungerci. Una settimana sarebbe stata sufficiente, saremmo stati pronti a tutto. Ma non fù così, e dalla mattina alla sera l'assedio era cominciato. Quando nelle strade e nei vicoli si sono sentite le prime grida sporadiche era tardo pomeriggio, il sole era molto basso all'orizzonte. Si annunciava un bellissimo tramonto arancione, che infatti è arrivato poco dopo, mentre bruciavamo i ponticelli di legno costruiti negli anni '80 per attraversare il fossato. Ne abbiamo lasciato solo uno per far entrare chi cercava di scappare e rifugiarsi, ma a tutti venne la stessa idea, di prendere l'auto e scappare verso sud, verso gli Appennini. Le strade si intasarono. In mezzo a tutto quel traffico, quasi subito dopo il tramonto le strade si riempirono di persone in fuga a piedi, un coloratissimo fiume di gente in corsa con zaini e valigie. Così tanti che chi era chiuso in auto non riusciva ad aprire le porte per proseguire a piedi. Finchè la fine della coda non venne raggiunta dai mostri, e allora quelli in auto si chiudevano dentro apposta. Per qualche tempo ne abbiamo visti, chiusi in auto per strada, a un centinaio di metri da noi, costantemente accerchiati dai mostri per ore e ore, per giorni. Questi colpivano le portiere con il corpo e con la testa, graffiavano i finestrini grattando con quello che rimaneva delle loro dita. Era solo questione di tempo prima che quelle cose rompessero un finestrino e si fiondassero famelici a mangiare vive quelle persone. Delle bare di ferro. Quella sera il nostro ultimo ponte di legno era piccolo, permetteva il passaggio di una sola persona per volta, e quando la calca di persone e oggetti dall'altra parte venne raggiunta dai non morti...tutti spingevano e gridavano, molti lanciavano ciò che avevano a portata di mano contro l'orda, tanti caddero nel fiume spinti da altri o durante la colluttazione con un non morto. Demmo fuoco al ponte quando i mostri cominciarono ad attaccare le persone che lo stavano attraversando. Chi venne preso e morso mentre attraversava cercava di difendersi con le mani, di fermare quelle bestie, ti rallentare la sua fine, e questo ci permise di prendere giusto il tempo che ci serviva. Bruciarono assieme al ponte e ai morti viventi che li schiacciavano con il loro peso. Questo fu il nostro scontro più ravvicinato con i morti, siamo stati fortunati. Giorno dopo giorno li sentivamo fare quel loro verso, quelle loro grida gutturali, mentre si ammassavano lungo le strade come infinite carovane orribili. Quel lamento assordante, migliaia di voci che gridavano guardandoci. Abbiamo aspettato qualche giorno dentro le mura senza fare nulla, sperando che venissero a salvarci i soldati o la polizia, abbiamo atteso penso una settimana, ma anche loro erano sempre lì fuori, ad aspettare noi. Quando abbiamo capito che non sarebbe arrivato nessuno abbiamo razionato il cibo e piantato quei pochi semi che avevamo. Dopo il primo mese la fame stava per compiere le sue prime vittime tra i bambini. Nessuno venne a salvarci".
Venezia
[Mi trovo nell'Arsenale di Venezia, una struttura ideata per la costruzione delle navi da guerra della Repubblica Serenissima e adesso convertita per accogliere strutture abitative galleggianti per i profughi dell'entroterra. Camminando per gli stretti ponti fatti di assi di legno e corde devo farmi strada tra la folla che occupa quelle strutture. Sono tutti impegnati, in un modo o nell'altro, nel ricostruire la rete di commercio navale che collega l'intero adriatico con la pianura padana. Qui incontro Paolo, Sopracomito della Galea "Lupa da Mar", che ha accettato di spendere il suo giorno di riposo rispondendo alle mia domande.].
-"Il mio compito, anzi sarebbe meglio dire il nostro compito, di tutti quanti gli abitanti di Venezia, è di ri-collegare tutto il mediterraneo sia per quanto riguarda le merci che per le notizie. Da quando le comunicazioni a lungo raggio come internet o la rete telefonica non sono più disponibili ci troviamo isolati completamente dal mondo. Siamo noi tra noialtri. E le informazioni, in guerra, sono tanto vitali quanto il pane e l'acqua. Siamo ancora in guerra noi, perchè i mari non sono stati del tutto ripuliti. Ci sono barche spinte alla deriva dalla corrente piene di quei mostri e quando ne si trova una va deciso se liberarla o farla saltare. Abbiamo ancora alcune grosse navi a gasolio ma le usiamo di rado e solo per carichi particolarmente preziosi, come per trasportare il poco petrolio rubato da quello che rimane del nord Africa. La maggior parte dei viaggi si fa come una volta, con le vele e a volte anche con i remi e si naviga seguendo le stelle. Domani parte un carico per Corfù e c'è un banco tenuto dal Comito, il mio secondo, che aspetta con ansia mariani abili da iscrivere alla ciurma e se vuole c'è posto anche per lei" -[Ride animosamente]- "Le braccia non sono mai abbastanza ultimamente".
-"La ringrazio per l'offerta, un pò di mare potrebbe anche farmi bene devo dire".
-"Le farebbe bene eccome! La salsedine, i tramonti, il pesce appena pescato! Il mare ne è ricco ormai, ci si naviga sopra quasi. Lo stesso dicevano del salmone in Canada, prima della pesca industriale, dicevano che si poteva attraversare i fiumi a piedi senza bagnarsi le braghe. Anche qui ce n'è tanto. I morti che sono finiti nei fiumi, o direttamente nel mare, vengono pian piano consumati dall'acqua salata e il plancton ne approfitta, e così via secondo il ciclo della vita fino ad arrivare ai pesci più grandi che finiscono per abboccare alle nostre lenze. A molti all'inizio faceva schifo l'idea, ma dopo un paio di giorni a remare a stomaco vuoto...la ruota gira e deve sempre girare."
-"Ho intervistato molte persone che durante l'inverno dopo il Grande Panico per avere un pesce avrebbero dato entrambe le mani, non mi faccio più scrupoli di sorta per quanto riguarda il mangiare, e penso si veda. E quindi, lei navigava anche durante la guerra?"
-"Io sì, fortunatamente. Io non sono di Venezia, i cittadini veri erano rimasti in pochi già prima del disastro. Io abitavo in terra ferma e come tanti sono stato spinto verso la laguna dall'armata di profughi. Oserei dire letteralmente spinto verso Venezia assieme alla mia fidanzata dell'epoca, ora ci siamo sposati. Avevo un barchino a motore, da poco più di due metri, ormeggiato vicino a San Giuliano. Mi ricordo che mentre ci spostavamo sull'acqua con due zaini a testa, era già pomeriggio inoltrato, guardavo con apprensione il Ponte della Libertà. Uno spettacolo mai visto prima, se ci penso lo rivedo come se fosse davanti ai miei occhi proprio adesso. Macchine. Tantissime macchine in fila, anche in contro mano, schiacciate le une contro le altre, stracariche di borse riempite in fretta e furia di qualsiasi cosa. Un camion dei surgelati con le portelle divelte, completamente svuotato. La gente era folle. I treni formavano un unico grande serpentone blu e bianco, alcune carrozze non riuscivano ad aprire i portelloni per far scendere la gente, che si accalcava in piedi contro l'uscita. C'erano anche un treno rosso, Austriaco, come sia finito lì quel giorno non lo sa nessuno. Verso la stazione dei treni di Venezia, alla fine del ponte, c'erano queste barricate altissime, improvvisate, fatte con traversini e anche quelle recinzioni in ferro che si usavano durante le gare ciclistiche per tenere il pubblico fuori dalla strada, non mi ricordo come si chiamano. E la gente voleva entrare con la macchina, e tutti a picchiare sui clacson e a fare bordello, li si sentiva da Marghera quando siamo partiti. Ed è stato questo quello che ci ha portato il demonio dentro casa. Sono arrivati tutti assieme. Noi eravamo già sbarcati in una delle piccole isolette fuori della Città dove c'erano delle altre barchine ormeggiate e una ventina di altri profughi come noi, pensavamo di stare lì lontano da quella calca infernale di gente impazzita. I più furbi sono entrati in città senza niente, addirittura si sono buttati in laguna tenendosi a delle corde per attraversare la barricata via mare, mentre tutti gli altri che gridavano e suonavano intestarditi dalla paura li hanno presi quasi di sorpresa. Il grosso del combattimento è durato forse un'ora. Combattimento...più che una lotta è stata una carneficina. Già alle prime grida provenienti dall'imbocco del ponte la gente aveva subito capito, si accalcava contro la barricata a tutti i costi, pestandosi e schiacciandosi. Tra le auto era difficile passare e la barriera ha retto, non c'era modo di spingerci contro in più di una decina contemporaneamente a perchè l'unico modo per raggiungerla era passare attraverso le stradine strette formatesi tra le file di veicoli fermi, e questo ci ha aiutato anche dopo a tenerli fuori. Un milione di chili di ferro e plastica su ruote difendeva dall'urto dell'orda la nostra barricata. Il sole era quasi calato, e sullo sfondo di questo cielo immenso e arancione la gente brandiva quello che poteva e lo menava disperatamente addosso ai mostri, inarrestabili, proprio come un' onda di piena. Ci hanno messo tanto ad arrivare alla barricata solo perchè c'erano tante vittime da uccidere, una dopo l'altra. Gli uomini incastrati tra le macchine mettevano sopra i tettucci delle auto i bambini, e uno dopo l'altro venivano inevitabilmente afferrati dai mostri e sopraffatti. Morsi vivi, strappati coi denti e schiacciati dal peso dei corpi di quei non morti con le pance già piene. Le grida di aiuto e i pianti me li sogno ancora la notte. Uno tra quelli sull'isoletta, un certo Domenico, più anziano, si è ucciso pochi giorni dopo per i sensi di colpa. Il solo ricordo di quella scena lo ha portato a morire, il non aver fatto nulla per aiutare i bambini. Si poteva farli scendere sulla barca e portarli via. Quando è sceso il buio c'erano alcune macchine con le luci accese che ci permettevano di vedere le figure dei mostri che sbattevano tra le vetture, camminando avanti e indietro, senza ragione e senza scopo. Ogni tanto si sentiva il vetro di un auto rompersi e delle grida, ma non duravano mai più di una manciata di minuti. E proprio col buio abbiamo imparato una lezione importante, basilare per difendere Venezia. Quei cosi non sapevano nuotare, quando piombavano giù dal ponte erano come sassi, cadevano e non provavano nemmeno ad agitarsi per stare a galla. Uno di loro è uscito dall'acqua nera camminando come se nulla fosse, si è presentato sulla nostra spiaggia. Doveva essere un impiegato, era in giacca e cravatta e gli mancava un pezzo di guancia e metà dei capelli. Era senza scarpe. Ha proteso le mani verso di noi facendo quel verso gutturale disgustoso, che ha funzionato come un richiamo per gli altri. Lo abbiamo affrontato con i remi spingendolo via, io ho imbracciato un asse di legno lungo due metri e gliel'ho fatto sventolare contro le gambe, rompendogli le ginocchia, ma quello non si è fermato. Non lo ha neanche sentito. Si trascinava con le mani verso di noi, afferrando la sabbia, gridando sempre più forte. Le gambe non gli rispondevano, e se le tirava dietro come monconi inermi. Stavo per morire di paura. Sentivo solo il cuore che batteva e l'aria nei miei polmoni che non era mai abbastanza. Non capivo nient'altro. A decine, quelli al di qua della coda di auto, piombavano in acqua attirati dal suo grido. Io potevo solo guardarlo avvicinarsi verso di me. La mia fidanzata mi ha preso il braccio e mi ha trascinato via, forse mi parlava o forse gridava. Penso che tutti sulla spiaggia stessero gridando. Siamo tornati subito alle barche e le abbiamo spinte in acqua, immergendoci fino al ginocchio, ed è lì che uno di noi è stato preso e trascinato al largo. Mentre la sua famiglia provava a tirarlo fuori tutti noi siamo scappati senza guardarci indietro."
Parma
[Parlo con Vittorio, un carabiniere di Parma che è riuscito a sopravvivere ai primi violenti scontri per fermare l'avanzata dei morti viventi ai margini della pianura padana. L'obbiettivo era quello di proteggere il resto del paese utilizzando gli appennini e i fiumi come barriera naturale. Vittorio ha poi presieduto il tribunale di Parma fino al primo tentativo di riconquista della pianura, quando è stato dimesso ed inviato al fronte.]
"Le comunicazioni satellitari sono rimaste operative per tutto il periodo della guerra. Il problema era l'accesso all'elettricità. Le centrali a gas si sono spente dopo pochissimi giorni dalle prime ondate. Il nostro paese non ha fonti da cui estrarre gas per rifornire l'intera popolazione; certo, la domanda era divenuta irrisoria ma la materia prima non poteva più essere trasportata dai luoghi di estrazione alle centrali, e tutti i gasdotti provenienti dall'Europa centrale sono stati chiusi ai confini. Per fortuna le zone con centrali idroelettriche si trovano quasi tutte nelle montagne: le gallerie e gli stretti passaggi rocciosi si sono rivelati più semplici da soffocare e difendere rispetto alle spiagge o alla pianura, solo che dovevano essere riforniti di cibo per quasi tutto il primo anno. Anche le pale eoliche sono state sfruttate, finchè non si sono rotte, e non avevamo modo di fare alcun tipo di manutenzione a quei giganti silenziosi. Ci siamo trovati in una situazione in cui è stato necessario reindirizzare la corrente a chi ne aveva ancora bisogno, nelle roccaforti, nelle serre o nelle fabbriche di munizioni, tagliando fuori tutti i luoghi dove i sopravvissuti erano troppo pochi. Non si poteva più sprecare nulla. Abbiamo scelto chi mantenere al caldo durante l'inverno e chi rispedire direttamente all'età della pietra semplicemente guardando una mappa con delle grosse frecce disegnate a penna e un pò di ipotesi verosimili. L'arrivo dei morti ci ha fatto crollare tutti nel caos e spesso nella barbarie più totale."
"Come ha risposto lo stato a questa invasione?"
"Beh, come per ogni problema, si sono dileguati tutti. Eravamo soli. La maggior parte dei politici si è rifugiata nelle seconde case o nelle isole private, pensavano di salvarsi grazie al mare o stando lontano dalle folle, non capivano che il problema non si sarebbe mai risolto da solo. C'era bisogno di organizzazione, incoraggiamento, lotta, ma ci siamo trovati davanti alla vera natura dei nostri politici egoisti, opportunisti e vigliacchi. Sono morti quasi tutti, chi di fame e chi mangiato vivo. A quanto pare i morti camminando sul fondale hanno raggiunto ogni isola del mediterraneo, e del mondo. Gli americani dicono che ci vorranno anni per ripulire il pacifico, le carcasse non vengono uccise dalla pressione dei fondali o corrosi dal sale e semplicemente vengono trasportate dalla corrente finchè non emergono da qualche parte sulla terra ferma.
Il comando delle forze armate è passato ai vari marescialli delle singole caserme, e si sono dovuti inventare qualcosa. Le stazioni di polizia e le basi militari della pianura abbastanza lontane dai più grossi focolai sono state fatte svuotare e inviate verso le centrali idroelettriche o nelle grosse città ancora non colpite, e poi da lì ognuno si è arrangiato. Chi era nell'epicentro dell'attacco è semplicemente morto, in qualche modo. Gli americani nelle loro grosse basi dell'aviazione hanno fatto i bagagli e attraversato l'atlantico, a casa loro hanno avuto un bel da fare. Ci hanno lasciato veicoli e munizioni di ogni sorta, oltre che razioni, carburante e divise. Non abbiamo fatto complimenti.
Mentre noi ci siamo trincerati sugli appennini mettendo mano a ogni roccaforte romana e castello medievale alcune unità di soldati sono state mandate a chiudere le strade e le autostrade lungo l'asse La Spezia- Parma- Rimini, in modo da sigillare gli appennini da Genova e dalla pianura padana. Piccoli gruppi armati formati da poche decine di soldati, con delle camionette blindate e qualche mitragliatrice pesante, si sono lanciati alla carica bloccando le autostrade principali e costringendo gli sfollati ad avanzare a piedi. Alcuni provarono a sfondare con le auto le reti perimetrali delle autostrade ma si impantanavano nelle stradine cieche di campagna. All'arrivo dei morti i soldati hanno resistito forse un'ora. Chi non si è ritirato è stato ucciso da quell'orda di morti famelici. Dopo una manciata di giorni i morti hanno trovato il modo di arrivare a San marino, a Firenze, a Pisa, non avevamo idea di come fermarli e ci siamo rinchiusi nelle nostre città stato."
Polizia Stradale
[Mi trovo sempre a Parma, nella Sala degli Acrobati del Castello di Torrechiara. Incorniciato dai grandi affreschi, al centro del Salone, regna isolato un enorme tavolo completamente coperto da cartine geografiche. Vengo invitato a sedermi da un semplice ma vistoso gesto del Maresciallo Paolo Tonini, comandante in capo della polizia stradale della regione Veneto. è una figura austera, calvo e col volto emaciato e cupo. L'alta uniforme che indossa è rovinata da due pesanti stivali in gomma, da giardinaggio. L'ometto invecchiato mi fissa inespressivo, stanco.]
"Buonasera Maresciallo Tonini, la ringrazio per questa immensa opportunità che mi sta concedendo, anche se immancabilmente la vedo molto provato. Proverò ad essere più conciso possibile."
-"La ringrazio io per questo suo lavoro che fa di resoconto, ripercorrere questi avvenimenti non è per me tanto un piacere quanto più un dovere, sia per le generazioni future e la storia del paese, che per lasciare un resoconto militare della questione. Penso che da un punto di vista organizzativo non ci sia nessuno che ne sa più di me, si esprima pure, senza imbarazzi."
-"La ringrazio ancora. è vero che ha dovuto gestire in totale autonomia la prima ondata? Qual è stato il suo ruolo?"
-"Il mio ruolo... direi che sono stato un pò quello che il mar rosso è stato per Mosè, salvezza e morte. Il mio ruolo era, ed è ancora, quello di fermare, appunto, l'ondata mortale che ha investito il nostro paese. E nel mentre salvare più persone possibili. Dico persone, e non civili, perchè oramai, con il decorrere di questa guerra, la differenza tra soldati e civili è sfumata. Ognuno è dovuto diventare qualcosa che prima non era, guerriero, agricoltore, medico, fabbro. Non avevamo ancora terminato di imparare gli uni dagli altri quando la guerra è finita, e lo stiamo ancora facendo con la ricostruzione.
Nessuno voleva credere alle notizie riportate dalle zone interne della Cina prima, e dell'intera asia poi. Ci hanno messo davvero poco ad avanzare attraverso la Russia e il medio oriente. Molti erano addirittura rifugiati nascosti dentro ai camion che a metà strada si trasformavano.
Nemmeno il tempo di capire cosa fossero che sono spuntati come funghi. I primi casi a Trieste e a Genova. Il giorno dopo erano già avanzati fino a Monfalcone e Aquileia. Siamo rimasti a bocca aperta come idioti mentre le città cadevano una dopo l'altra e i sopravvissuti scappavano, spingendo altri sfollati a scappare a loro volta come l'orda degli unni sui barbari. per noi, una marea di persone da gestire, sfamare, tutti assieme. è brutto da dire ma la maggior parte sono morti durante la marcia verso la salvezza, chi non era in grado di camminare per tre o quattro giorni di fila senza soste, riposando solo qualche ora la notte, rimaneva indietro. Dopo 36 ore dal primo caso di infezione all'interno del paese ho dato l'ordine di sbarrare l'autostrada E70 e la A28, li ho chiusi tutti, incastrati nelle lamiere sotto il sole, obbligati a marciare. Tutti, nessuno escluso, donne, bambini, vecchi. Volevo fermare l'avanzata veloce di quei mostri, trasportati nelle auto e nei camion da parenti e amici che non capivano, che non volevano sbarazzarsene. Ma era già troppo tardi, gli infetti erano già passati oltre i posti di blocco, ore prima. Ne bastava anche solo uno per portare l'inferno oltre il primo cordone di sicurezza. è questo che abbiamo dovuto imparare, ed in fretta. Nessuna pietà per la malattia, non dovevo permettere che i miei uomini fossero permissivi, ne che presentassero dubbi o titubanza. Per il bene di tutti dovevano essere integerrimi e terribili.
inizialmente ho pensato che avremmo dovuto fare affidamento sui laboratori delle università: trovare la cura a tutti i costi e velocemente, senza perdere tempo. Le università più vicine ancora in funzione erano quella di Trieste e Padova. Abbiamo perso i contatti con trieste tre giorni dopo, mentre i pochi sopravvissuti si trinceravano nel colosso universitario, ma quando la corrente se n'è andata beh, le chiusure magnetiche delle porte sono saltate. Padova...ho inviato camion scortati per far evacuare i macchinari e le attrezzature verso le università di Milano e Ferrara, tre mesi dopo quelle attrezzature sono state trovate intatte nei cassoni dei camion, i mezzi si erano fermati poco fuori la città, per un motivo o per l'altro.
Verso il quinto giorno era evidente che una battaglia in campo aperto era già persa ancora prima di essere intrapresa, anche semplicemente dalla progressiva diminuzione delle comunicazioni provenienti dalla pianura. Abbiamo cercato di nasconderci dentro ai vecchi castelli e alle roccaforti, ammucchiando più cibo, munizioni e vestiti possibili. Il processo di blindatura sembrava estremamente semplice finchè non abbiamo finito il carburante, ne avevamo ancora una piccola scorta nella centrale di polizia locale di Parma ma la teniamo ancora come ultima risorsa, è talmente poca... Quando i furgoni hanno smesso di muoversi, li abbiamo posizionati a spinta agli incroci delle strade più importanti facendoli diventare delle barriere, e abbiamo finito di spostare le merci sequestrando animali da tiro. Per fortuna c'era un piccolo maneggio vicino al castello dove abbiamo trovato tre cavalli ancora legati nelle stalle. Erano davvero mansueti, l'ultimo rimasto gira ancora per il cortile dentro alle mura, gli altri due li abbiamo uccisi durante l'inverno.
Li senti subito avvicinarsi, e anche se le mura sono spesse metri sei convinto che non basti mai, il terrore che generano è tale da renderti folle. Li senti avvicinarsi perchè puzzano in modo tremendo, osceno. Sono marciume e fetore camminanti, si stanno decomponendo e soprattutto d'estate l'aria diventa pesante e irrespirabile, non c'è via di fuga. La puzza ti attanaglia e ti costringe, e non c'è rimedio, non c'è profumo ne erba che possa alleviare il disgusto.
Se ripenso alle prime notti passate dentro alle mura, al comando di tutta quella gente sconosciuta, mentre quei mostri si ammassavano contro i portoni in legno del castello, sbattendo con l'intero corpo e producendo quel tremendo verso, come vocali gutturali gridate da migliaia di gole recise. Tutti assieme, tutto il giorno e tutta la notte. I primi due giorni nessuno ha dormito, le persone erano impaurite e stressate, erano diventate cattive. Si rubavano il cibo dalle mani. Abbiamo dovuto intimorirne diversi, anche picchiandoli. Dopo la seconda notte insonni alcune persone semplicemente chiudevano gli occhi e riposavano presi dalla fatica che aveva finalmente la meglio sul terrore.
La cosa più brutta che ho vissuto finora è la consapevolezza di vedere come le persone che invio in missioni di ricognizione o per fare provviste vengano prese dall'orda e trasportate dalla corrente di morti, per poi tornare davanti ai portoni del castello da morti. Anche se sembrano lenti, anche se sembrano lontani, non c'è scampo. Ti prendono. Sempre.
Dopo la riconquista abbiamo cominciato a ripulire le strade dai relitti delle automobili, stiamo smontando quelle bruciate per sciogliere il metallo e bruciamo nei forni la plastica che le compone, quelle ancora funzionanti invece le spostiamo in un grande parcheggio vicino alla centrale di polizia, dove serviranno per i pezzi di ricambio. Un primo carico di diesel ci è stato portato dai depositi di Venezia, e adesso stiamo facendo ripartire i trattori per coltivare le terre.
I corpi dei morti hanno fertilizzato i campi".
Trieste
[Mi trovo a Parma. Mattia è uno dei sopravvissuti che ha voluto condividere la sua storia con me.]
Eravamo nel nostro appartamento, a Trieste, al quinto piano. Io, le mie due figlie e mia moglie. Non era mai successo nulla, non abbiamo mai fatto del male a nessuno. Stavamo vivendo le nostre vite tranquillamente, con i nostri problemi ma comunque felici. Poi, una sera come tante altre, abbiamo sentito un grande baccano provenire dal porto, dal nostro balconcino si poteva intravedere il mare incastrato tra gli alti edifici residenziali. Verso le 21:30 mi sembra alcune auto si sono fermate sotto casa nostra, come se ci fosse traffico. Non sapevamo di cosa si trattasse. Non era mai successo prima. I minuti passavano, ma le macchine in strada non si muovevano, erano ferme in coda. Alle 22:00 abbiamo sentito delle grida provenire dalla città. Moltissime persone hanno cominciato a gridare tutte assieme, ci siamo sporti dalle finestre ma non si vedeva nulla. Ho provato a mettere a letto le bambine, cercando di mantenere la calma. Tra i palazzi quelle urla lontane rimbombavano in modo assordante. Abbiamo provato a vedere alla televisione se ci fosse qualche notizia di cosa stesse succedendo, ma nulla sembrava fuori dall'ordinario. Nessuno diceva niente. Abbiamo visto un sacco di video sui social di alcuni nostri amici: gente che scappava gridando, le persone più lente venivano catturate e picchiate da un gruppo di folli. Tutti quanti, nessuno escluso. Tutti scappavano gridando. Qualche ora dopo li abbiamo visti correre anche sotto casa nostra, erano spaventati, gridavano, scappavano, si incastravano tra le lamiere delle auto ferme gridando di cannibalismo e che gente veniva mangiata viva. Non capivamo niente di cosa stessero dicendo. Era una grande folla in fuga. Alcuni automobilisti hanno lasciato l'auto sotto casa nostra e sono scappati assieme alla folla. Poi sono arrivati gli altri. Un muro di grida costanti. Erano come persone impazzite, sporche di sangue e con i vestiti a pezzi, le loro braccia cadenti penzolavano lungo i fianchi o venivano agitate in fronte al corpo come se non fossero più parte di loro. Una persona sotto di noi si era aperta una profonda ferita sulla gamba cadendo in qualche modo, era solo pochi passi davanti a quelle persone impazzite, zoppicava vistosamente tra le auto. Questi la hanno raggiunta e la hanno afferrata, la hanno fatta cadere a terra e ci si sono buttati sopra. La hanno fatta a pezzi davanti ai nostri occhi, mordendola e strappandole la carne dalle ossa. Noi ci siamo subito chiusi dentro casa e siamo rimasti lì. Ho immediatamente provato a chiamare i miei genitori ma le linee erano intasate. Siamo rimasti svegli tutta la notte. All'alba abbiamo sentito tantissime sirene rimbombare tra gli edifici, e la massa di assassini si è mossa verso la direzione del suono. Però le sirene si allontanavano, si stavano dirigendo verso l'autostrada. Siamo rimasti soli. Il secondo giorno non c'era più acqua corrente, e dopo il terzo era saltata anche la luce. La disperazione e il terrore hanno assalito la mia mente. Dovevo convincere mia moglie a scappare, a tutti i costi. Non saremmo sopravvissuti per molto ancora. Le bambine cominciavano a tossire.
Abbiamo deciso che dovevamo fuggire di notte, presto, quella stessa notte. Abbiamo preso degli zaini e li abbiamo riempiti con quelle poche cose che aveva senso portarsi via. Dalla notte precedente per strada non c'era più nessuno, ce ne eravamo assicurati anche prima di scendere le scale verso l'ingresso del palazzo. Aperto il portone, mi sono diretto verso il garage per prendere le biciclette e portarle alle bambine, mentre mi aspettavano con mia moglie ancora dentro al palazzo.
Erano tutti lì, in attesa, in fondo alla rampa del garage, a fissare il portone di lamiera. Fermi. Immobili. Non respiravano. Vedendoli tutti lì ammassati ho sospirato e loro si sono svegliati. Hanno gridato. Un gemito elettrico ha avvolto i loro corpi, spasmi e spintoni. Si sono girati verso di me. Dietro di me ho sentito il portone del palazzo sbattere. Le prime file mi fissavano. Hanno allungato le braccia verso di me, con le mani aperte, tetaniche, le dita secche e allungate verso di me. Ho cominciato a correre.

