Il complesso biomedico
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Il complesso biomedico
L’ Incursione
Una voce elettronica parla attraverso l'interfono: "TOT: 2 minutes".
L'abitacolo del Huey è quasi buio, solo scarsamente illuminato da una singola lampadina rossa posta sulla parete laterale interna dietro al sedile del pilota. I portelloni in ferro chiusi suonano colpiti dal costante turbinio di acqua e nuvole mosso dai rotori dell’elicottero che sfreccia quasi alla cieca, immergendosi in montagne di cumulonembi neri, i quali buca indenne rovinando la loro maestosa figura. Una grossa e bianca luna piena fa ogni tanto capolino tra le nubi, illuminando l’abitacolo attraverso i finestrini con una luce chiara, quai fastidiosa. I tre PMC ingaggiati dal ministero della difesa sono seduti in due file opposte sugli spartani sedili in ferro e lino del Huey. Sembrano tutti e tre indaffarati, ispezionano le tasche delle loro mimetiche digitali nere, scarrellano le armi ingrassate, controllano le pile elettriche. Nessuno dice nulla. Si guardano, fissando le maschere nere che coprono i loro volti, guardano le loro armi, guardano fuori dai portelloni aperti l’enorme estensione dell’oscurità soffocante che si trasforma ad ogni improvviso lampo in una folta ed impenetrabile foresta che stanno sorvolando velocissimi. “Remember, in and out, easy as pie. The research facility is spread across 20 square kilometers, just stick to the plan you recieved. Don't get lost. As soon as you done, meet at the helyport, northbound, and light a flare, we’ll pick you up.”.
Matias appoggia sul sedile affianco a sè la cuffia, e il cavo che corre fino al soffitto penzola in balia delle leggere turbolenze che scuotono l’abitacolo.“Come la fa facile lo stronzo”, dice. Gli altri due, che hanno più o meno capito il suo labiale, ridono forzatamente. Non c’è tanto di cui ridere. L’elicottero sorvola a bassa quota una strada incastrata tra la foltissima foresta, coperta da liane e interrotta da grossi rami, è adatta solo a piccoli mezzi di terra. Un vecchio cartello illuminato dal riflettore dell'elicottero indica la direzione per i laboratori genetici. All'orizzonte, immerse negli alberi, si intravedono delle imponenti strutture in cemento che si fanno sempre più grandi, accerchiate da alti cancelli, reti e filo spinato arrugginito. Improvvisamente l’elicottero rallenta e ruota su sé stesso, stabilizzandosi sopra un piccolo cortiletto all'interno di quelle altissime reti. Matias e David fanno scorrere i due portelloni lungo le fiancate della fusoliera e vengono fatte cadere due grosse corde nere. La lampadina rossa si spegne per un istante, rivelando la completa oscurità che li circonda per chilometri e chilometri, in un attimo sostituita dalla luce una saetta blu che illumina le cime degli alberi affievolendosi subito, per poi lasciare il posto ad una luce verde che si accende illuminando l’interno dell’elicottero. “Green light, jump!” gli viene ordinato dai piloti attraverso le cuffie. I tre afferrano le grosse corde e si lasciano scivolare per svariati metri, ingoiati dal buio più totale. Una volta che tutti e tre hanno toccato terra, con un lieve fruscio le corde si accoccolano delicatamente su sé stesse, arrotolandosi come due grossi serpenti neri. L'elicottero si è già voltato e se ne sta andando nella direzione da cui è venuto, senza aspettare oltre. I tre si trovano a guardare l’edificio, incastrati con la recinzione alle spalle, accucciati e inginocchiati con i fucili in mano, le luci tattiche sugli elmetti e sui fucili ad illuminare le finestre che corrono lungo la facciata di cemento coperto a tratti dal muschio. Due improvvisi fuochi rossi divampano dalle mani di Matias e di David, che li gettano ad un paio di metri di distanza da loro verso la struttura. Rebecca nutre la canna del suo AUG a1, e si prepara per l’incursione. “Allora a me toccano gli uffici” dice David, “Matias tu prepara il sistema di comunicazione, installa il trasmettitore a lunga frequenza, sfrutteremo le antenne del complesso per amplificare i nostri segnali radio”,
“E io penso al generatore” lo interrompe Rebecca “non si vede nulla”.
“Meglio così” le risponde Matias “Meglio non farci vedere troppo, già l’elicottero ha fatto un casino”.
“Via le maschere”.
Per la prima volta i tre si squadrano l’uno con l’altro. Rebecca, una giovane ragazza coi capelli rossi, alta non più di 1,70m; Matias, un omone grande e grosso con due mustacchi folti e neri come i suoi capelli; e David, un ragazzo robusto e biondo, alto come Matias, una spanna in più di Rebecca. La luce dei flare perde placidamente d’intensità e i tre non sono quasi più capaci di riconoscere il viso l’uno dell’altro, la forma degli zigomi si perde nell’oscurità e l’unica luce rimasta sono gli occhi di Rebecca che riflettono la soffusa luce della luna. “è ora, sincronizziamo gli orologi” dice David e i tre impostano l’ora alle 02:00.
“Buona caccia” bisbiglia Matías a Rebecca, serio. I due uomini, chini, si immergono uno dopo l'altro nell’oscurità strisciando lungo il muro perimetrale che costituisce l’edificio, verso la loro destra. Rebecca li guarda svanire nel buio, come se non fossero mai stati lì, per poi partire a sua volta silenziosamente nella la direzione opposta. Il cemento usato per pavimentare il percorso cerca in tutti i modi di far risuonare i suoi passi mentre scivola contro il muro con la spalla destra. Alla sua sinistra, oltre le altissime recinzioni e il filo spinato, la foresta è silenziosa, buia, terrificante. Si riesce a scorgere a malapena la silhouette delle fronde che si stagliano contro lo sfondo del cielo stellato "Ho una brutta sensazione, come di tristezza" bisbiglia a sé stessa. Davanti a lei una piccola torretta di guardia in cemento coperta di muschi e liane, alta tre metri e qualcosa, si erge affianco ad un cancello scorrevole in ferro arrugginito. Rebecca afferra con i guanti il ferro del cancello, e facendo meno rumore possibile lo spinge lentamente facendolo scivolare, aprendolo solo di una manciata di centimetri in modo da potersi incastrare attraverso la piccola fenditura che è venuta a crearsi. L'mp5k che porta al fianco sbatte lievemente contro lo scheletro metallico dell’inferriata che risuona vuota in tutta la sua lunghezza, Rebecca si blocca per un istante, guardinga e attenta, per poi ripartire. Ora la attende un piccolo sentiero largo un paio di metri, coperto di ghiaia, delimitato da entrambi i lati da recinzioni e filo spinato. Deve percorrere al massimo una decina di metri, alla cui fine si presenta una struttura in mattoni con al centro una porta in ferro sormontata da una piccola lampadina accesa e un pannello fotovoltaico. Appeso davanti all’ingresso c’è un cartello triangolare giallo con al centro una saetta. Rebecca si spinge fino alla porta, dove un lieve sciamare di insetti sbatte contro il vetro della lampadina, ed estrae da una tasca il kit per scassinare la serratura. Appoggia un grimaldello all’interno della serratura e prepara una piccola chiave ad S per applicare una forza torcente al blocco cilindrico, ma questo non oppone resistenza, semplicemente ruota, e con un forte rumore di ruggine e metallo la porta si spalanca da sola. "è già aperta". Immediatamente imbraccia la sua arma e si fa coraggio, affrontando la totale oscurità che domina oltre la soglia della porta. Mentre Rebecca si fa largo la luce bianca della torcia si scontra prima contro una parete vuota, poi verso il centro della stanza, contro dei pilastri in ferro e altre strutture. Davanti ai suoi piedi una stretta e lunga grata in ferro continua fino all’estremità opposta della stanza, seguendo il muro, per poi piegare a sinistra e verso il basso. È un camminatoio. Gli scarponi di Rebecca fanno risuonare il vecchio metallo saldato ad esagoni ad ogni passo. Mentre scende i gradini perlustra con la torcia il piano inferiore, si tratta di una stanza quasi completamente vuota, con diversi barili accatastati negli angoli e un grosso macchinario posto al centro. È il generatore, "finalmente" sussurra. Avvicinandosi al quadro comandi nota come sia tutto in ottime condizioni, tranne che per l’assenza della leva di sicurezza per l’accensione. Non è un problema. Dopo vari tentativi scopre che l'interruttore gira, ma rimbalza subito in posizione neutra, e il quadro comandi neanche si accende. "Il problema è sicuramente la batteria dell’avviatore elettrico". Aprendo un piccolo vano sotto il quadro, vede una batteria di auto con due connettori appoggiati sopra, uno rosso e uno nero. Li connette ai poli della batteria e riprova a girare l’interruttore, che stavolta emette uno scatto deciso ed entra in sede. Il quadro si illumina, luci lampeggiano e lancette fremono. La lancetta del carburante non si muove. Rebecca cerca tra i barili una pompa di travaso, e la trova già collegata ad un barile quasi pieno. Travasa il diesel nel serbatoio del generatore con bruschi movimenti sulla leva della pompa. Ora prova a far partire il macchinario tramite l’avviatore elettrico, ma questo sputa e non sembra voler partire. Nonostante gli sforzi per fornire di corrente l’edificio, è tutto inutile. Rebecca, incazzata nera, tira un calcio al motore così forte da incrinare alcuni elementi in metallo, e con degli sbuffi ed un forte e improvviso scoppio di fumo nero il generatore parte, facendola cadere all’indietro per la sorpresa. La stanza si illumina gradualmente grazie ad un paio di lampade al neon e il fortissimo sbuffare della bestia rende impossibile sentire. Rebecca spende un'altra manciata di minuti per travasare un altro intero barile di diesel nel serbatoio, che si riempie a metà, e poi risale le scale in fretta per dirigersi verso l’uscita. Ora deve trovare gli uffici e i laboratori, per setacciare l’intranet del complesso. Raggiunta la porta si precipita a passi decisi attraverso il corto camminamento verso il cancello in ferro, ma qualcosa attrae la sua attenzione. La recinzione di destra ha uno squarcio, una grossa fetta di inferriata è completamente scomparsa e al suo posto rimane un enorme buco. Incredula, si ferma. Il cancello poco più avanti è scaraventato a terra, divelto. Una piccola macchia risplende sul suolo, ai piedi dello squarcio. Un oggetto di colore nero. Rebecca vi si avvicina e si china, circospetta. Lo prende in mano, ed è caldo. Si tratta di un artiglio, come quello di un lupo, ma molto più grande, quasi quanto la sua mano. Lo mette in tasca e procede ad armi spianate. Torna velocemente alla drop zone e vede sul prato delle orme di animale, grandi, a quattro punte. Continua ad avanzare seguendo il muro. Mentre cammina nell’oscurità i suoi scarponi calpestano dei vetri infranti. Lei subito si immobilizza. Guardando sopra di se vede che sono i vetri delle finestre poste poco sopra di lei. Piccole tracce di sangue ornano i riflessi dei vetri ancora attaccati al mastice delle cornici. "Qualcosa è entrato nel complesso. Qualcosa di grosso". Spingendosi quasi a gattoni segue la curva del muro e procede verso l’ingresso usato dai suoi compagni d’arme. L'entrata dell’edificio è preceduta da una bassa scalinata, e protetta da una parete di vetro spessa due centimetri. Non c’è segno di scasso sulle porte, che sembrano bloccate da chiavistelli. Non sono passati per di là. Una piccola porta sulla parete laterale qualche metro oltre l’ingresso sembra fare al caso suo. Questa si lascia aprire con facilità, e Rebecca entra in uno sgabuzzino pieno di tubature. Varcando una seconda porta entra finalmente nel complesso principale. I suoi passi risuonano con eco secca mentre attraversa i corridoi verso il salone d’ingresso. Raggiunta l’entrata, alla sua sinistra vede che le porte di vetro sono chiuse da grosse sbarre di ferro, e imbocca una larga scalinata al centro del salone per raggiungere il piano superiore. Lì dovrebbe trovarsi la sala comunicazioni dove sta operando Matias. Sale i gradini. È quasi in cima alle scale, davanti a lei due corridoi sopraelevati si dilungano in direzioni opposte, seguendo il profilo del muro, e al loro centro una doppia porta. Mentre allunga la mano verso la maniglia davanti a sè Rebecca sente alle sue spalle il rumore di forti e pesanti passi vibrare nell’intero salone. Le porte vibrano. I passi sono prima lenti, ritmati, come se qualcosa dietro di lei nel salone fosse incuriosito. Un essere alla ricerca di qualcosa, pensieroso, che calcola ogni suo movimento. Poi per qualche istante si fermano. Rebecca, ancora in piedi con la mano sulla maniglia, rimane immobile, pietrificata. Lievemente prova a fare forza sulla maniglia di ferro la quale scatta lievemente, click. Dietro di lei sente un grosso lavoro di polmoni, come un mastice che assorbe una grande quantità d'aria. E poi i passi riprendono, prima lentissimi, e tutt'a un tratto velocissimi diretti verso di lei. Frenetici. Si avvicinano. Alle sue spalle. Senza girarsi Rebecca si lancia contro la porta, spalancandola, per poi scivolare atterra oltre la soglia ma senza mai lasciare la presa sulla maniglia. Tirandosi su e voltandosi di scatto spinge di spalla contro la porta riesce a sbatterla con forza. A fianco a lei trova una spessa e pesante barra in metallo che sembra essere stata lasciata lì apposta per chiudere quella stessa porta. Sorpresa e spaventata, con il fiatone, Rebecca fa qualche passo lungo il corridoio stringendo il suo fucile, puntandolo contro l’ingresso chiuso, quando una luce proveniente da una stanza dietro di lei la abbaglia. “Che pasò?” gli fa una voce dalla stanza. Rebecca guarda Matías con gli occhi sbarrati. “Qualcosa è entrato” risponde lei.
“Ma che stai dicendo” gli dice Matias abbassando il suo Galil. Lei entra a tentoni nella stanza, lasciandosi cadere su una delle tante sedie girevoli della sala comunicazione. “Lo ho visto, era dietro di me”.
“Hai visto cosa?”.
“Non lo so. Una fottuta bestia!”.
“Ma di che stai parlando? Tutto quel diesel ti ha fottuto il cervello”.
“Ti dico che lo ho visto! Era dietro di me! Sono entrati dalle finestre, dalla recinzione!” ...“La recinzione! Ho trovato questo sulla recinzione” gli dice mentre estrae l’artiglio dalla tasca.
“È un puto scherzo de mierda? Non mi stai facendo ridere Rebecca”.
“Dobbiamo avvisare David” dice lei.
“Quel cazzone starà sicuramente perdendo tiempo”.
“Dove sono gli uffici?”.
“Sotto di noi”. I due si guardano, “Finisco di preparare il comunicatore, e poi andiamo assieme a cercare quel pendejo, troviamo il computer che ci serve e ce ne andiamo”. “D’accordo” gli risponde Rebecca “dobbiamo cercare di capire cosa sta succedendo”. Dopo pochi minuti l’aggeggio radio è funzionante e produce dei bip ritmati mentre una piccola antenna gira su sé stessa. “Il collegamento è buono, possiamo trovare quel computer, collegarlo, e mentre invia i dati andarcene, non credo ci saranno problemi”. “Dal computer no. Lo sapevo che era troppo semplice, lo sapevo che avevano chiamato dei contractors per vedere cosa gli sarebbe successo. Magari non c’è nemmeno un computer da cercare”.
“L’elicottero? Che torni a prenderci?”.
“Non lo so. Andiamo a cercare David”.
I due escono dalla stanza e guardano la porta sprangata, diffidenti. All'unisono vanno dalla parte opposta. In fondo al corridoio riflettono la luce dei neon argentate un paio di porte di ascensore. I bottoni per chiamarli sono incastrati e non si accendono. “Vieni, apriamo” dice Matias, che si allontana velocemente e si infila dentro una stanza, per poi tornare con un pezzo di ferro piatto e lungo, che infila nella fessura tra le due porte ed usa per spalancarle facendo leva. Illuminando con la torcia la tromba dell’ascensore, vedono ad una manciata di centimetri sotto di loro la cabina. Ci saltano sopra, e con un colpo dato col calcio del fucile fanno cadere sul pavimento la botola superiore. “Prima le signore” fa Matias mentre allunga la mano a Rebecca, la quale la afferra e si lascia calare al piano di sotto. Lui invece salta giù. L'ascensore trema, incerto, come se non fosse arrivato al piano più basso. Le porte sono quasi aperte, c’è la gamba di una sedia che le blocca. Con una piccola spinta i due riescono a spalancare del tutto le porte, accedendo ad un'area buia della struttura molto disordinata, caotica. Vi si addentrano, accendendo le luci portatili, e cominciano a cercare. “Le luci, svelta”. Rebecca si avvicina in fretta ai muri della grande stanza e comincia a scorrerli con la mano, facendo attenzione a non inciampare sulle sedie e tavoli rovinati sul pavimento. Un click, e le luci a neon sul soffitto cominciano ad accendersi. Una ad una le luci rivelano l’entità del caos nella stanza. Non un oggetto è dove ci si aspetterebbe di trovarlo, e quasi tutti i separé verticali dei tavoli sono graffiati o tranciati. “Dobbiamo serrare le porte che danno sull’atrio” fa Rebecca, “OK, presto” gli risponde Matias mentre vi si avvicina con quello che rimane di un tavolo. Accatastati abbastanza materiali contro una doppia porta in legno, i due si dirigono verso una serie di porte chiuse dalla parte opposta della stanza. Davanti a loro mezza dozzina di porte arancioni si ergono su due pareti. I due, in piedi, non sanno da quale cominciare, non sapendo cosa ci possa essere dietro ad ognuna di queste. “Scegli tu che sei fortunata” dice Matías, indicando le porte graffiate e rovinate. Rebecca corre verso la prima porta subito affianco agli ascensori, un cartello lo indica come bagno degli uomini, e si mette con la schiena a muro, il fucile imbracciato e ad un suo cenno del capo Matias sfonda la porta con un calcio. I due tempestano dentro alla stanza buia, ma appena varcano la soglia della porta strabuzzano gli occhi, impreparati. Un caldo tanfo asfissiante entra nelle loro bocche e nelle loro narici, chiudendole, e la luce delle torce rivela loro un macabro spettacolo. i piccoli fasci luminosi si schiantano contro i muri e rivelano delle macchie nere allungate, scomposte, sono schizzi di sangue. Moltissimo sangue. La luce che ora scivola verso il pavimento illumina resti di braccia strappate, gambe mozzate e vestiti svuotati che giacciono inermi lungo tutto il pavimento. Le dita sono nere. I due sussultano, non avanzano oltre. È tutto completamente distrutto. Subito escono dalla stanza e chiudono la porta dietro di loro. Ansimanti, hanno fame d’aria. “Puta madre!”.
“Si stronzo, ci siamo cacciati proprio in un puta madre”.
“Hai visto sul braccio? La pattuglia, un'aquila bianca. Avevi ragione, sono PMC, sono quelli venuti qui prima di noi.”
“Ma non c’è neanche un foro di proiettile, si sono lasciati morire, non hanno neanche acceso il generatore”.
“Penso proprio che sia stato quello il motivo della loro fine. C'è qualcosa che caccia nell’oscurità. Si muove, ti punta e ti strazia, e non hai scampo”.
“Ma dove cazzo è David?”
“Quel puto, se non viene fuori in trenta secondi lo fotto”.
Rebecca si sposta vicino alla porta seguente, posandoci l’orecchio e ascoltando. “Niente qui”. Matias si avvicina e posa anche lui l’orecchio “sono sicuro che anche nell’altra non si sentiva niente”.
“Grazie al cazzo capo”. Con un lieve movimento della mano Matías abbassa la maniglia della porta e spia nella stanza. Uno spogliatoio vuoto, con delle docce a muro in fondo alla stanza. “Che facevano qui, acquagym?”. Rebecca lo spinge delicatamente dentro la stanza “Io dico di entrare, secondo me sono le docce per l’accesso ai laboratori”. “Fammi vedere come si fà, che sei più brava” fa Matias aprendo la porta, facendosi da parte e spingendo una mano contro la schiena di Rebecca. I due entrano e si spostano ai lati opposti della stanza, camminando lungo le due file di armadietti in ferro, puntando le luci dei fucili contro qualsiasi cosa, fino a raggiungere le docce. “Guarda là” gli fa Matías “Una porta. Vienimi dietro”.
All'estremità della stanza, nascosta dietro alle docce, un piccolo corridoio con dei grossi bidoni permette l’accesso ad una spessa porta arancione con una vetrata verticale. Attraverso la vetrata si può scorgere un secondo corridoio con diversi scoli sul terreno e degli idranti sul soffitto, alla cui estremità c’è una seconda porta. Poi il buio. Delle spesse tute integrali di plastica arancione giacciono sul pavimento del corridoio. “Non mi piace per niente” dice Mattias a bassa voce. I due lasciano stare, si girano e tornano indietro. Delle esplosioni improvvise rimbombano nella stanza. Dei forti botti, cadenzati, esplodono a intervalli quasi regolari. “Uno Stoner! David sta combattendo!”. I due si lanciano fuori dagli spogliatoi e rimangono immobili per qualche istante, in attesa di sentire altri spari. Ma nulla. “Quella porta!” grida Rebecca “Buttala giù!”. Subito Matias corre verso l’ultima porta della serie e le assesta una poderosa spallata, aprendola con facilità. “David!” grida Rebecca attraverso il corridoio buio. Niente. I due puntano le torce lungo il corridoio e provano a farsi strada nell’oscurità davanti a loro. “Un interruttore, in fondo alla parete!”.
“Vai adelante! Ti copro io!”. Rebecca lascia cadere penzolante al suo fianco il fucile e scatta in avanti mentre Matías fa irruzione nella ampia sala che si apre pochi metri dopo il corridoio. Scivola sulle mattonelle cercando di slittare verso l’interruttore, e una volta raggiunto accende le luci. Ma non accade nulla. Riprova ostinatamente, ma niente da fare, quella stanza è buia. “Sono rotte! Un bengala!” -”Non ne ho, sono di sopra!” risponde Matias. “Indietro! via dal corridoio!” grida Rebecca. Dei veloci passi rimbombano nella stanza, come piedi nudi che corrono sulle mattonelle, per poi fermarsi all’improvviso. Un fortissimo respiro fa fermare i due mercenari. Una enorme bestia che respira, nel buio. A pochi passi da loro, ma invisibile oltre il buio. Sentono l’aria che entra ed esce dai forti polmoni. “Ci sta fiutando!” grida Matias, “fiuta questo, merda!” annuncia subito prima di schiacciare a fondo il grilletto del suo Galil. Ogni proiettile esploso illumina la stanza per una frazione di secondo attorno ai piccoli fasci di luce, e i due osservano come delle sagome nere, delle figure terrificanti si muovono fuggendo in ogni direzione dallo spazio aperto al centro del salone. Delle bestie allungate, con delle grosse code, bipedi. Un fortissimo grido risponde alle assordanti esplosioni del fucile. Un ruggito morboso e antichissimo, che fa rivoltare i due dall’interno, riempiendoli di un terrore che l’umanità ha da troppo tempo dimenticato. Un boato così forte e penetrante che Matias smette di sparare, esterrefatto. Rebecca, a terra, sente le mani gelide a contatto col pavimento. Le fissa. Le mani! Si rialza scattando verso Matías. Un leggero tonfo proveniente da sopra di loro interrompe il silenzio. Rebecca afferra il suo compagno e lo trascina lontano, verso la porta aperta. Esattamente nell’istante in cui lo sposta, una grossa massa cade davanti a Matias ed un suono sordo e terribile esplode davanti alle sue mani. Il suo fucile scompare nell’oscurità, strappato dalla bestia. Matias allibito rimane di stucco a fissare l’oscurità, intontito.
“Corri!” grida lei mentre Matias guarda esterrefatto il buio. Questo si riprende. I due entrano nella stanza e subito chiudono la porta, sbarrandola con qualsiasi cosa riescano a trovare. “Li ho visti” sussurra Matias, “Li ho visti, no puede ser”.
-“Cosa hai visto? Cosa sono?”.
I due continuano imperterriti ad accumulare sedie, tavoli, libri contabili davanti alla porta. Oltre di essa, nell’oscurità dell’edificio, passi pesanti si alternano a piccoli graffi e saltuari colpi contro la porta. Ma le bestie non sembrano voler davvero entrare da lì. “Che si fà, torniamo indietro?” chiede Matias ansimante, seduto su una sedia in cima al cumulo di oggetti accatastati. “Indietro dove?” gli risponde Rebecca “alla sala comunicazioni? No, siamo soli. Hai visto i bagni? Dobbiamo trovare il modo di andare via da soli. Cerchiamo una mappa del complesso, ci deve essere un garage o qualche veicolo.”
“Non penso che troveremo niente qui in giro, dobbiamo entrare in una zona protetta.”
“Mandiamo una richiesta di aiuto, facciamo finta di essere stati tutti uccisi. Manderanno sicuramente un'altra squadra, magari in sei riusciamo a farli fuori”.
“Noi ci abbiamo messo cinque giorni per prepararci, gli ci vorrà troppo tempo. Saremo già morti, ci serve un piano migliore, dobbiamo andarcene subito”.
Paura del buio
“Che si fa?” chiede Rebecca mentre controlla e ricontrolla le munizioni nei caricatori. “Non lo so” risponde Matias “Bisogna inventarsi una via di fuga”.
“Ti ricordi le foto satellitari che ci hanno mostrato durante il briefing? Mi sembra di aver visto un eliporto o qualcosa del genere.”
“Non mi ricordo nessuna cosa del genere, ne sei sicura?”
“Io ho visto un eliporto, pensavo ci scaricassero lì. Dobbiamo trovare una mappa della struttura e capire cosa fare”.
“Beh, se c’è una mappa” fa Matias alzandosi in piedi e passeggiando nella stanza in direzione del muro “è sicuramente dietro questa fottuta porta fortunata!” e con un calcio improvviso sfonda una porta arancione. I due incuriositi fissano i bastoni delle scope cadere e un rotolo di carta srotolarsi nel pavimento dello stanzino buio illuminato solo dalla lieve luce alogena dello stanzone. “
“Gran bel fiuto” gli fa Rebecca. “Le tute arancioni! Andiamo lì!”.
Matias sbuffa “No me gusta, ma non abbiamo altra scelta”. I due si palesano davanti alla porta con la vetrata. Sbirciando attraverso il vetro vedono le tute abbandonate a terra, le tre docce e le griglie di scarico sul terreno. Matias si punta di peso contro la maniglia e spinge la porta, aprendola lentamente. Entrano entrambi nello strano stanzino. Dietro di loro la porta si chiude da sola. All'improvviso vengono accecati da qualcosa. Una luce rossa lampeggiante, oltre la porta. Un segnale luminoso si accende, e una scritta compare sul vetro dello stanzino: “Decontaminazione non completata”. I due, tranquillamente superano la seconda porta tenuta aperta da un attaccapanni coperto di camici, steso a terra. Spostano l’attaccapanni con un calcio e attraversano la soglia, illuminando la stanza con le luci. La porta dietro di loro si chiude anch’essa da sola e il segnale di allarme si spegne. Dopo una manciata di secondi un getto di gas verde satura lo stanzino dietro di loro. Un gas denso e pesante esce dalle doccie sul soffitto dello stanzino di vetro e cade lieve, posandosi sulle tute arancioni per poi scomparire aspirato dagli scoli. “E anche questa ci va di culo” fa Matias guardando quel gas verde che scivola via turbinando sulle mattonelle.
“Beh, scaviamo”.
La stanza sembra in ordine. Non è tanto grande. Ci sono delle scrivanie con dei computer impolverati. Scaffali da ufficio con porte in vetro proteggono microscopi, manuali e becher di vetro. “Io mi occupo dei computer” dice Matias, mentre si siede su una sedia girevole e investiga come accendere un PC. Rebecca si sposta per la stanza alla ricerca di qualsiasi cosa possa essere utile. “Ci sono dei bioreattori qui” fa lei, colpendo leggermente con la canna del fucile un barile in acciaio “sembrano pieni d’acqua”.
“Acqua? Che schifo” gli risponde l’altro, indaffarato.
Rebecca continua a passeggiare tra gli elementi in acciaio e vetro del laboratorio, “Senti ma...quelle cose?”.
-“Taci, non voglio parlarne. Qui siamo tranquilli, taci e basta.”
-”lo sai che sono qui fuori no?”
-”Ricordamelo tra cinque minuti”.
-”magari siamo già morti che camminano. Non credo avremo alcuna speranza di uscire vivi da qui. Non penso proprio”.
-”Puta femmina, vai a portare la tua iella da qualche altra parte. Io non morirò in questo buco di merda perché una bestiolina è arrabbiata... Aspetta, vieni a vedere! Ho l’accesso a tutte le telecamere!”
Nel monitor del computer quattro piccoli riquadri cambiano in continuazione facendo vedere immagini di corridoi, stanze ordinate, saloni, stanze distrutte, strade che corrono verso la foresta buia all’esterno.
“Dai cerca l’elicottero! Andiamo via!”.
Premendo tasti di qua e di là Matías salta da una telecamera all’altra, eccitato, alla ricerca di qualcosa di utile. I riquadri sfilano uno dietro l’altro senza mostrare nulla di interessante.
“Fermo! Lì, torna indietro!”.
“Dove?”
“La stanza di prima, la stanza del primo piano. C'era qualcosa sulla porta”.
“Ripercorrendo le immagini a ritroso, Matías ritrova la telecamera che punta quasi direttamente contro una doppia porta chiusa. Sprangata con qualcosa di ferro. “Guarda bene, è un fucile”.
“È lo Stoner 63 di David.”
“Magari è ancora vivo, non c’è sangue da nessuna parte”.
“Bisogna comunicare. Senti, continua a cercare. Io vado a vedere se trovo un interfono o qualcosa”.
Rebecca ispeziona dettagliatamente ogni singolo pulsante e bottone, controlla ogni telefono e ogni microfono, alla ricerca di qualcosa che permetta di comunicare con David, per capire come sta e se sia ancora vivo. Ma niente. Frustrata dall’incapacità di agire, schiacciata in quelle pareti fredde, chiusa in quella tana come un topo, si lascia prendere dallo sconforto. Sono rinchiusi entrambi come in una scatoletta di tonno, che aspetta solo di essere aperta. La inattesa consapevolezza di questo la rende sempre più triste, non sa cosa stia succedendo, non sa che cosa siano quelle cose che vogliono ucciderli, non sa perché sia stata mandata lì da quegli stronzi del dipartimento. Darebbe dieci volte la cifra che le hanno promesso per poter tornare a casa. Si lascia cadere di peso su una sedia girevole, e con la testa a penzoloni fissa il vuoto. I capelli rossi sfilano poco sopra alla sua spalla, sfiorando la giberna nera. La canna del AUG tocca il pavimento mentre lei si lascia oscillare sulla sedia come fosse una bambina, mentre con le mani afferra la scrivania davanti a sé, che quasi scivola dalla presa dei guanti neri a mezze dita. Si sente sola. Lo sguardo perso nel vuoto. Fissa l’ingresso, il piccolo corridoio di vetro, la porta chiusa. Non pensa a nulla. Fissa un piccolo quadratino blu posto contro la porta, chiuso da una piccola teca di vetro a ribalta. Un'idea le balza in mente, peggio di così si dice a bassa voce mentre si alza dalla sedia per investigare il bottoncino. Dopo pochi passi pesanti, ci si trova davanti, si china e lo fissa. Con l’indice alza il vetro protettivo, in un gesto semplice, e lo porta poi a mezz’aria davanti al bottone. E lo sfiora. Click. Immediatamente si accende una luce rossa lampeggiante nel laboratorio e scatta una sirena.
“Ma che cazzo fai, puta!” le grida Matias, ancora seduto davanti ai computer.
Rebecca lo fissa e dice “Beh, questo sì che è un bel guaio”.
Il rumore della sirena si fa sempre più forte, raggiungendo un livello tale che i due devono tapparsi le orecchie con le mani, per poi smorzarsi e scendere e ricominciare il ciclo.
Matias, con le mani sulle orecchie, fa cenno con la testa verso Rebecca cercando di farla venire davanti ai computer. I due fissano esterrefatti delle macchie nere che compaiono e scompaiono sullo schermo, mentre colpiscono una porta graffiata con il loro intero peso. Entrambi capiscono al volo quello che sta succedendo. Le cose sono attirate dal rumore e si stanno dirigendo verso di loro.
“Dobbiamo andare agli ascensori prima che questi vengano qui, quel vetro di merda non resisterà neanche un pò”.
Matias scatta in piedi e afferra l’appendiabiti “Blocchiamo di nuovo la porta, c’è il gas”. Rebecca pensa ad ogni possibile soluzione per sfruttare il gas ed eliminare le bestie, ma non c’è modo di uscire senza attivare la decontaminazione se non bloccando la porta. “Proviamo a bloccare anche l’altra porta, e poi togliamo il blocco alla prima. Appena quelli entrano si trovano la porta davanti chiusa e quella dietro che gli si chiude alle spalle”. L'altoparlante della sirena è esattamente davanti alla porta che da sugli spogliatoi, e i due attraversano il passaggio chiudendo la porta del laboratorio e bloccando l’altra. Corrono a perdifiato senza badare a fare rumore, tanto non serve più. Gli scarponi sbattono fortemente contro le mattonelle bianche degli spogliatoi. Raggiunta la porta, Matias la apre sbattendoci la spalla contro e fugge fuori, girando immediatamente alla sua sinistra verso gli ascensori. Deve salire in fretta, e non si guarda indietro. Afferra una sedia abbandonata e la trascina senza fatica attraverso i pochi metri che lo separano dal cubicolo argentato, la posiziona sotto alla botola aperta e si prepara a salire. Butta l’occhio verso la stanza per vedere dove si è cacciata Rebecca, ma davanti a lui c’è uno dei bestioni. La prima cosa che nota sono i denti, grossi e bianchi, disposti come due seghe complementari, incastrati in una bocca verdastra e squamosa. La testa della bestia rimane ferma in aria mentre il suo corpo scuro ondeggia. Ha due zampe appese al busto, piccole, e altre due tozze e grosse poste a terra, ben saldate al linoleum della stanza attraverso due serie di artigli incurvati, neri. È completamente coperto di piume di colore scuro. Dalla sua bocca spalancata esce un forte alito, come se dentro di lui si muovesse un grosso mantice. L'odore di cadavere putrefatto che riempie l’ascensore Matías lo conosce anche troppo bene. Con le mani ancora sulla sedia, fissa la bestia che gli si avvicina con calma, e i suoi denti che si fanno sempre più grossi e grida “EL DIABLOOO!!”.
Rebecca, rimasta solo pochi passi dietro a Matías, appena questo aveva spalancato la porta aveva buttato l’occhio verso la porticina che avevano chiuso con le sedie e i tavoli, ma non la aveva vista. Un rettangolo nero stava al suo posto, e i tavoli erano spostati abbastanza da permettere il passaggio di un cinghiale. A quel punto si era immediatamente girata su sé stessa, conscia di quello che stava per accadere, e si era diretta a rotta di collo sui suoi passi. Ma non era sola. Dietro di lei, una di quelle bestie la aveva seguita. Ed era veloce. L'aveva raggiunta all’altezza delle docce dove, saltando, si era stagliata a mezz’aria cercando di colpirla con le grosse zanne. Ed effettivamente aveva lacerato qualcosa. La bestia si era fermata a masticare un pezzo di spallaccio nero, mentre Rebecca strisciava attraverso la piccola fenditura della porta socchiusa.
La ragazza si trova ora con le spalle al muro, distesa per terra, mentre si tiene una spalla che non sa perchè le fa male. Sa solo che fuori della piccola fenditura c’è una bestia che vuole ammazzarla, e che non può chiudere la porta perchè sennò l’ammazza il gas. La sirena continua a gridare e tornare in silenzio all’infinito, e nei momenti di quiete Rebecca sente che la bestia sta rigando le piastrelle con gli artigli e sta annusando l’aria alla sua ricerca. La ragazza sa che se non fa nulla per lei è la fine. Deve inventarsi subito qualcosa. Si alza in piedi e sfila una piccola corda di nylon nero dalla tasca, la avvolge attorno alla maniglia della porta tenuta aperta da un piccolo tubo di metallo e attorno alla maniglia della porta chiusa. Si siede e tiene con entrambe le mani la corda, puntando tutto il suo peso. Vede attraverso il vetro della porta la figura della creatura, che lentamente si alza e si abbassa, pesante. Vede la sua narice, grossa come una palla da biliardo, attraverso la fessura, e sente l’aria calda e fetida che attraversa quel piccolo spiraglio. Poi vede una zanna mentre la bestia spinge il muso contro il telaio. La corda si tende, e Rebecca viene tirata verso la maniglia. Lei affonda il suo peso sulla corda e questa torna tesa, richiudendo la porta. La bestia è incuriosita, e prova ad aprire la porta nuovamente. Rebecca adesso scivola a terra, sotto il fortissimo peso della bestia. Si mette a sedere e punta i piedi sulla maniglia e sul vetro mentre cerca disperatamente di tenere fuori la creatura. La porta si ferma, non si apre di più. Sotto l’enorme sforzo Rebecca comincia a piangere, non sa più che fare. Nella disperazione comincia a gridare alla bestia “Vai via! Va via!” mentre le lacrime le rigano le guance. Le grida di Rebecca affiorano ad ogni intervallo della sirena. La bestia comincia ad essere sempre meno incuriosita e sempre più affamata. Spingendo il muso attraverso la fenditura con sempre maggior forza. Rebecca sente la sottile corda che le sfugge dalle mani, mentre il nylon le brucia le dita, che stanno diventando viola. La bestia ora soffia pesantemente col naso, arrabbiata, e spinge gli artigli delle zampe dentro alla stanzetta. La corda sfila lentamente dalle mani di Rebecca, che rimane impotente, può soltanto gridare. Quando perde la presa, la ragazza tonfa sul terreno e la porta dietro di lei si spalanca. La bestia si fa strada nello stanzino, ingorda, fissando la sua preda con la bocca spalancata. Rebecca subito cerca il suo fucile, imbracciandolo contro la bestia schiaccia il grilletto. Una mitragliata va a segno sul muso, e questa scatta indietro mentre un mare di sangue cola a terra e scivola lentamente dentro agli scoli. La belva ferita fissa la ragazza da fuori, sanguinando. Un altro muso appare sotto la figura ormai quasi completamente sporca di sangue. La ragazza disperata grida “Morite!” mentre spara ancora, svuotando il caricatore contro l’ingresso. Una delle due bestie fugge per qualche metro prima di rovinare atterra con un grosso tonfo, mentre la seconda scivola dentro alla stanza, ancora viva. Alcuni dei suoi denti sono stati rotti dai proiettili. A lenti passi si avvicina a Rebecca, che coperta di sangue cerca di cambiare caricatore. A lenti passi i grossi denti della bestia si avvicinano alla ragazza distesa a terra, che scivola sul sangue appiccicoso e denso. Avvicinatasi ai suoi piedi, la spalanca la bocca. Rebecca lancia il suo fucile di traverso dentro a quella bocca tremenda, che si serra in un attimo con un suono sordo di denti contro il ferro, e poi spinge con i piedi il calcio e la canna che fuoriescono dalle fauci del mostro. Questo non si ferma, e schiaccia la ragazza contro il vetro spesso della porta, sempre di più. All'improvviso la sirena si ferma, e una luce si accende sul vetro. “Decontaminazione”. La porta dietro alla bestia si è chiusa. Il gas comincia ad uscire e a saturare lo stanzino, mentre Rebecca giace senza via di fuga. La bestia, impaurita, impazzisce. Scatta contro la scritta luminosa sbattendo contro il vetro ripetutamente, mentre Rebecca cerca di coprirsi gli occhi e trattiene il fiato. Mentre la bestia ispira quel gas velenoso a pieni polmoni sbatte folle contro il vetro, incrinandolo fino a sfondarlo. Il gas segue la bestia che fugge dentro al laboratorio per qualche passo, prima di cadere a terra senza vita. Rebecca cerca di scivolare attraverso il buco, uscendo anche lei dal varco aperto dalla bestia e cercando un angolino, stando a terra per evitare le esalazioni. Tiene aperto un solo occhio per paura di perderli entrambi. Dopo pochi istanti le pompe risucchiano il sangue e il gas fuori della stanza, azionandosi per una manciata di secondi.
Rebecca si trova a fissare la belva enorme ed immobile che giace a pochi passi da lei. L'occhio che teneva aperto si è arrossato e le brucia, ma l’altro sta bene. I polmoni le fanno male e la gola sembra essere piena di spilli di ferro, rendendole difficile respirare. La ragazza gattona verso quel mostro coperto di piume, estrae la pisola e le spara in testa. Le orecchie le fischiano al punto che quasi non sente la deflagrazione.