Dead land ep.2 IT
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Dead land ep.2 IT
Il respiro del cemento
(Val): “Sono in ritardo, sono in ritardo!” disse “sono nel ritardo più assoluto, devo correre correre correre forte forte fortissimo” mentre si allunga per accalappiare con la punta delle dita una fetta di pane che aveva lasciato sul tavolo della cucina la sera prima e schiantandosi contro la porta per spalancarla e poi sbatterla dietro di se contro i cardini come se il futuro dell’umanità dipendesse da quello. Scendendo le scale, scivolando sui gradini di cemento e aggrappandosi all’ultimo istante sul corrimano di ferro arrugginito, mentre macina con i denti la fetta di pane e controlla di avere un pezzo di ferro tagliente nella borsetta per difendersi da loro, in quanto era mattino presto e…non si sa mai. Raggiunto il piano terra, corre verso il portone d’ingresso e comincia il rituale. Aprire le porte dei palazzi è impossibile, a meno che tu non abbia una chiave; il cemento è casa, e chiunque di loro sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa per chiamare un buco bagnato “la MIA casa”. Nella penombra dell’androne al piano terra, uno stanzone senza finestre freddo ed inospitale, Val inserisce la chiave dentro alla serratura posta a lato della porta e davanti ai suoi occhi i chiavistelli scricchiolano, i catenacci si alzano, i blocchi schioccano, le putrelle tornano scattando nelle loro fessure nel muro, i cardini cigolano e dalla fenditura della porta che si sta aprendo entra un piccolo spiraglio di luce. Basta quella piccola linea verticale di luce accecante per far scomparire tutta l’oscurità che avvolge il piano terra. Il confine che demarca la casa dalla strada è segnata dall’acqua nera e dalla spazzatura, che non riescono a penetrare le spesse porte fatte di ferro, cemento e polimero. Per val è un’oscenità dover calpestare l’esterno, le vengono conati di vomito solo al pensiero che le SUE scarpette pulite con tanta cura la sera prima tocchino quel zozzume. Però il richiamo della città è sempre forte ed irresistibile, e la devozione di Val verso di essa è monolitica. “non sarà di certo un po' di acqua a spaventarmi” si dice mentre imbocca l’uscita. Val mente a sé stessa quasi continuamente, ma è così brava, o così stupida, che finisce per credere alle sue stesse menzogne. Mentre si dirige a piedi verso la metropolitana oltrepassa cumuli di loro, ammucchiati sui marciapiedi dai netturbini speciali che tengono pulita dai corpi la grande strada. Molti nullatenenti, ovvero quelli che NON posseggono, muoiono durante la lunga notte per le più svariate ragioni, chi di fame, chi di freddo, chi per overdose e chi viene ucciso. Non fa differenza agli specnet, che si limitano a raccogliere quei cosi e a lanciarli nel cassone del camion. Spesso devono togliere i corpi dalle grinfie dei famigliari o dagli artigli dei bambini nati deformi a causa della spazzatura e delle droghe. “se gli aveste voluto bene davvero, gli avreste dovuto dare le vostre cose, non fate finta di piangere ORA” gridano ai disperati in lacrime, con gli sguardi ieratici, le bocche socchiuse, le labbra tremolanti e i volti coperti di acqua nera e solo due rivoli puliti dalle lacrime sotto agli occhi che rivelano il vero colore della loro pelle. Val non bada più a queste cose, è risaputo che quello è il destino di chi non possiede nulla, “crudele ma giusto” si ripete “le regole della città sono semplici, sei ciò che hai, e se non hai non sei”. La fretta sembra averla lasciata una volta tornata al suo posto, camminando per le strade al cospetto degli altissimi palazzi, la cui sommità è invisibile a causa delle nuvole di gas. Le auto nella carreggiata si accalcano l’una sull’altra, quasi schiacciandosi ai semafori e agli incroci, per andare un pochettino più avanti, solo qualche centimetro in più. Tutti devono fare ciò che devono fare, andare a lavoro, entrare nei palazzi in cemento per svolgere le loro importantissime funzioni, perché sanno che la città senza i loro sforzi diventerebbe un caos, ed essendo la città grande, i loro sforzi dovranno essere grandi. Entrando nel grattacielo della Plasticorps, Val passa velocemente le scarpe e le mani in uno degli igienizzatori posti in fila come soldatini bianchi per poi dirigersi verso i grossi ascensori stracolmi di persone che non ha mai visto in vita sua. “è strano” pensa tra sé mentre l’ascensore sale “ogni mattina prendo questo ascensore, ed ogni mattina vedo facce nuove”. Il crepitio dei cavi nella tromba dell’ascensore la distrae, mentre immagina il contrappeso quadrato immergersi a gran velocità nel vuoto dalle sommità del palazzo, sapendo in cuor suo che lei può solo immaginare ciò che succede e che non vedrà mai ciò che esso vede. Un leggero *Ding* annuncia l’apertura delle porte al 41esimo piano, e delle poche persone rimaste ancora nell’ascensore lei è l’unica a uscire. Camminando sulla moquette sintetica verdastra, attraverso il labirinto dei cubi- ufficio di color greige caldo, un leggero tonfo ovattato dalla peluria sporca accompagna ogni suo passo fino alla sua scatoletta. Si siede sulla sua sedia nera, davanti alla sua scrivania color legno (anche se in realtà è fatta di plastica) inserendo la password del suo computer e controllando che la linea del suo telefono funzioni. È molto importante verificare la funzionalità di ogni oggetto di lavoro, sia perché sono suoi, che perché potrebbero arrivare telefonate già dalle prime ore. I telefoni sono collegati gli uni agli altri all’interno del palazzo, e le chiamate arrivano esclusivamente da suoi colleghi lavoratori nell’edificio. Val non sa se si possa chiamare qualcuno dall’esterno, non ci ha mai provato e farlo sarebbe solo una perdita di tempo. Tutte le sue giornate lavorative seguono lo stesso corso. Il suo importantissimo compito è chiamare gli altri piani al telefono e riempire il computer delle informazioni che si scambiano. Informazioni su imballaggi, plastiche, protezioni e confezioni. La produzione è importantissima e la qualità del prodotto deve essere sempre altissima, la migliore plastica della città, anzi del mondo intero perchè “con un palazzo così alto e con così tanti lavoratori, dovremmo vendere plastica in ogni angolo del pianeta”. Quando il telefono squilla, lei risponde e ascolta ciò che le viene detto, lo memorizza nel computer, e con suo grande vanto anche nella sua testa, per poi chiamare un altro numero e ripetere le informazioni che le sono state dettate. Si ricorda tutto del lavoro, ma proprio tutto, nomi e numeri, date e scadenze, orari, tipologie di plastiche, nomi dei brand e addirittura numeri seriali a sedici cifre. Non potrebbe essere più contenta, né più fiera di sé stessa. Sta facendo la sua parte e la sta facendo anche molto bene.
Lei lavora finchè qualcuno al telefono le dice che è arrivata l’ora di smettere, e lei da ottima lavoratrice qual è ripete il messaggio di chiusura per via telefonica ad un altro lavoratore. Durante la discesa in ascensore non viene riprodotto il jingle dell’azienda ma un messaggio registrato che ripete istruzioni, che Val sente ma non ascolta in quanto ha già la testa piena di informazioni, e non ne vuole certo accumulare altre. Uscendo dalle porte dell’androne del palazzo si guarda attorno, ammirando il cemento che vive e prospera attorno, sopra e sotto di lei. Le sembra quasi che non sia cambiato nulla da quando è entrata, che le auto siano sempre le stesse in attesa di avanzare nelle stesse corsie. “il ritorno ha sempre un che di malinconico” dice mentre prende la via verso casa “mi piace lavorare e chiamare i miei colleghi”. Ormai era quasi ora di ascoltare le grida disperate delle madri che si affacciavano dalle finestre dei palazzi, e Val si aspettava di poter ascoltare i nomi dei bambini, ma sentiva come se nell’aria mancasse un elemento, come se l’energia sprigionata dai gridolii divertiti dei più piccoli si fosse dispersa nello smog. E infatti quella sera non sentì madri gridare ne vide bambini correre verso i portoni delle loro case, ma una cosa che la incuriosì fù il notare un certo livello di frenesia nei nullatenenti, come se non avessero nessuna intenzione di conservare per loro stessi le poche energie che gli rimanevano nelle membra e nei muscoli, ma volessero disperderle nel putridume che li circondava; si trascinavano, si avvicinavano, si inseguivano e si prendevano, si soffocavano e si mutilavano il viso l’un l’altro con ogni mezzo a loro disposizione, si mordevano e si masticavano, si strappavano e si ricoprivano dei pezzi dell’altro come se fossero marci ornamenti ed effigi primitive, biglietti di ingresso nel mondo delle danze dimenticate dagli uomini morali. Lei continuava a camminare, immergendo le sue scarpe nel liquido denso come olio non più di colore nero, ma viola, che sembrava scorrere e sgorgare in modo più intenso del solito. Ma non era di certo un suo problema, capire l’andamento del fluido nero non competeva a lei e non aveva nessuna voglia di fare il lavoro a qualcun altro senza ricevere nulla in cambio, e poi d'altronde lei non sarebbe stata lì per sempre, sarebbe stato più intelligente spendere il suo tempo cercando qualcos’altro. E mentre era assorta in questi pensieri tutto intorno a lei quei cosi si ergevano sopra a mucchi di carni e membra divelte, mentre usavano porzioni strappate dai loro corpi per colpire con gran foga e fatica il mucchio, come se volessero schiacciare e distruggere ogni cellula animale presente in quel conglomerato. Le grida di terrore di donne e bambini straziati e massacrati non vanno ascoltate, se quelle donne e quei bambini sono LORO. Pensava a questo Val mentre guardava il grande portone di ferro aprirsi con grandi schiocchi, e quello stesso baccano attirò all’improvviso l’attenzione di alcune figure oscure, nascoste oltre i fasci di luce, grondanti e ansimanti. Sembravano poter pensare come animali superiori, sembrava che i loro neuroni si stessero scambiando segnali elettrici in modo morboso e convulso, muovendo la testa a scatti e flettendo ogni muscolo dalla schiena alle dita delle mani in un arco innaturale e maligno che li portava a schiacciare l’aria putrida fuori dai polmoni, producendo un grugnito grasso e marcescente. Val stava guardando l’atrio del condominio, così buio e freddo, le avrebbe fatto piacere non essere sola in quel momento, magari parlando al telefono come aveva fatto al lavoro, e non si accorse quindi che quegli esseri innaturali e moribondi si erano scagliati di gran carriera verso di lei, correndo e mostrandosi per quei mostri disgustosi che sono ogni volta che venivano colpiti dalla luce dei lampioni. Correndo nelle più disparate maniere, sembravano caricature di esseri umani, alcuni con le braccia tese verso di lei, la testa all’indietro e le bocche spalancate come se stessero urlando a squarciagola ma senza produrre alcun suono, altri con i gomiti inchiodati ed il busto ondeggiante, si scontravano e si rialzavano, inciampavano sulle tende e su altri esseri presenti nel marciapiede. Val attirata da questa improvvisa sensazione di furia omicida commette l’errore di girarsi, quasi annoiata, e il suo sguardo incontra il volto di uno di quegli esseri, il volto di val si riempie di terrore puro, gli occhi si sgranano e la bocca si apre lievemente mentre vede quelle figure abominevoli che si avvicinano come mai era successo in vita sua, mentre alza le mani dai fianchi nel inutile tentativo di difendersi. Lo guarda in faccia mentre si schianta a tutta velocità attraverso la piccola fessura del portone e ci rimane intrappolato per essere poi schiacciato grazie ai potenti motori che fanno ruotare i cardini. La sua espressione rimane attonita, immobile, per tempo compreso tra una manciata di secondi e svariate ore.
Risalire le scale le sembrava diventato impossibile, ogni scalino era diventato altissimo e si doveva aggrappare costantemente allo scorrimano con entrambe le mani per poter proseguire senza accasciarsi ad ogni passo. Avrebbe desiderato sedersi in un angolino ed attendere che qualcuno la venisse a prendere, ma non sarebbe mai successo, e lei lo sapeva. Nessuno le avrebbe dato nulla senza ricevere qualcosa in cambio, e lei certamente non avrebbe ceduto nulla a nessuno. Una volta entrata nel suo appartamento di tolse le scarpe e le lavò in modo automatico, era la risposta che il suo corpo effettuava ogni volta che tornava a casa, come un automa, ma mentre toglieva i residui di corpi, sangue e bitume cittadino crollò in lacrime accasciandosi sul pavimento e perdendo i sensi.