Il Macellaio
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Il Macellaio
Notte bianca, notte nera
Uccidere Per il puro gusto di punire, storpiare, strappare, eliminare da un essere vivente tutto ciò che lo distingue dalle bestie. Un ammasso di carne ed ossa. Il suo scopo è chiaro e semplice, come le parole che ha lasciato nella lettera inviata al Commissariato di Neapolis. Si muove con il suo Furgoncino nero nella notte, alla ricerca di prede contro cui sfogare il suo odio e la sua rabbia. Pattuglia ogni notte, con minuzia, le strade nei sobborghi poco illuminati di Neapolis, alla ricerca di una vittima per la quale valga la pena rischiare di morire. Vuole solo vederla soffrire. Vuole solo vederla piangere. I lampioni illuminano ritmicamente l'abitacolo del furgone, mentre lui fissa la strada davanti a sé, senza guardare nulla né prestare attenzione. Guidare è come un gesto automatico, che lo aliena dai suoi pensieri. Mentre guida lui non esiste più. È come se tutte le voci che con costanza occupano la sua testa si spegnessero, come se si distraessero a guardare gli alberi che sorpassa ai lati della strada e le luci dentro le finestre delle case. Lui si chiede costantemente se Dio esiste, e se lui possiede un'anima. Se esiste, io non posso uccidere e torturare. Se esiste io potrei avere uno scopo, potrei essere vivo per una ragione. Non posso credere che la mia vita qui non abbia più senso di un sasso immobile, così effimera e breve. Ogni ora sembra un'eternità, Eppure gli anni si rincorrono così velocemente che non riesco a stargli dietro. La mia memoria non funziona più, non riesco a ricordare nulla. Tutto ciò che dovrebbe essere positivo lo vivo come un affronto. Non riesco a concedermi un momento di pace. Non posso apprezzare nulla. Tutto ciò che è bello mi è lontano. I sentimenti stessi mi sono diventati estranei e ostili. Odio in modo viscerale tutto, odio nutrirmi e odio bere. La mia vita è intrisa d’odio, ogni mio gesto mi fa soffocare in un odio denso e nero, e io me lo merito. Il mio dovere è morire, dovrei farlo ora, io desidero ardentemente morire, lo desidero follemente, tanto che lo sogno la notte, ogni notte, di venire ucciso apposta o per sbaglio. Ogni mattina mi sveglio, triste e deluso di essere vivo, di essere nato. Se non fossi mai nato. Se solo non fossi mai nato. Non ho nemmeno il coraggio di impiccarmi. Voglio un coltello in mano, mentre corro verso un poliziotto, mentre sbraito e gridò a squarciagola, agitandolo sopra la testa. Corro con gli occhi chiusi in attesa di sentire un calore improvviso e cadere a terra con un tonfo sordo, esanime. Voglio che qualcuno si faccia carico della mia morte. Voglio morire senza poter decidere nulla. Morire. Io voglio uccidere stasera. Voglio uccidere tutto. Voglio uccidere.
Eccola, finalmente. Una ragazza, sul marciapiede, cammina con insicurezza, allunga entrambe le mani verso un albero e ci si avvicina a passi brevi, per poi posarci tutto il suo peso. Sta tornando a casa ed è ubriaca.
Il furgone è parcheggiato alla fine della via, lontano una cinquantina di metri dalla siepe, che fiancheggia il marciapiede e dietro alla quale lui si nasconde. Seduto per terra come i bambini, con le gambe tese e le punte dei piedi verso l’alto, con la testa un poco inclinata sulla spalla e la bocca aperta, mentre gli occhi spalancati guardano verso il furgone. L'unica cosa che percepisce è l’aria che entra ed esce dai polmoni attraverso i denti. Non gli sembra nemmeno di essere lì. Non sa niente. Alle sue spalle sente un rumore leggero, una porta che si apre e si chiude. Lui, senza chiudere la bocca, si gira, posando le mani per terra, ma senza muovere le gambe. Gli occhi esterrefatti si posano sulla porta della casa, mentre il respiro si fa sempre più affannoso. Fissa le luci che si accendono e spengono in sequenza nella casa. "È entrata.”. “Il caos l'ha salvata.”. “Il caos non è il mio padrone, le sue leggi non hanno potere su di me.” Lui le cose non sa mai se le dice ad alta voce o le pensa e basta. Il corpo che usa non è il suo, e fa fatica a capire queste cose. Aspettando in quella posizione scomposta, vede una piccola finestra lato della casa illuminarsi e poi aprirsi. Si alza in piedi. Mentre la sua testa ciondola come se fosse legata al corpo da una corda sulla quale non ha alcun controllo, e gli occhi roteano nelle orbite mentre cerca di mantenere lo sguardo fisso sulla finestra. Muovendosi lentamente, cerca di pestare il meno possibile sui talloni, per fare piano. A cinque metri dalla finestra aperta riesce a sentire conati di vomito provenire dalla stanza. è il bagno, e dentro c'è qualcuno che sta male. Da dov'è riesce a vedere il giardino sul retro; la sua attenzione viene attratta da una figura nera, nascosta dietro alla casa, enorme, informe, con cinque arti che protrudono in modo scomposto da un corpo malformato. La testa deforme, nella quale spiccano due zanne bianche. Questa si alza in piedi, e comincia a balzellare sulle gambe, alzando le spalle vicino alla testa e tenendo le tre braccia lungo il corpo. Lui sorride alla bestia, porta le mani sul viso e comincia a graffiarsi la pelle delle guance, fissandola affascinato. Questa trova una bicicletta e ci siede, con due mani afferra il manubrio e con la terza un pedale, mentre tiene le gambe divaricate e la bocca aperta. Con un movimento ritmico del braccio, a cui segue il busto e la testa, se ne va dietro alla casa e scompare. Lui estrae il coltello dalla tasca interna della giacca, è un coltello a serramanico con una lama lunga otto centimetri. Si avvicina alla finestra, quatto quatto, si abbassa. Si mette sotto al balcone, mantenendo lo sguardo fisso sulla finestra e balza in alto, posando lo stomaco sulla lastra di marmo alla base della finestra e reggendocisi con la mano sinistra, mentre la destra guida la punta del coltello dentro alla gola della ragazza, china in ginocchio sul water. Il coltello fugge dal collo della ragazza con la stessa rapidità con cui è entrato. Lui, in bilico sulla finestra, sorride con la bocca spalancata mentre guarda la ragazza portarsi le mani al collo ed emettere un conato di vomito verde che le ricopre le gambe. Lei si gira di scatto e corre, ma carambola contro il lavandino, sbattendo la testa sullo specchio, mandando il secondo in frantumi e il primo in pezzi contro il pavimento. Accasciandosi di peso sui cocci rotti, con una mano alla gola e l'altra stesa verso la porta, La ragazza perde i sensi mentre il sangue le sgorga a fiotti fuori dalla gola. Lui si spinge giù dalla finestra e se ne va verso il furgone.
il giorno dopo sul giornale compare un articolo di una ragazza coinvolta in un incidente domestico, è morta scivolando in bagno da ubriaca.
“Non è vero! Sono stato io! Sono stato io! Sono stato io! Devono fermare me, devono venire a uccidermi! Chi ha scritto questo pagherà!”
Tenente Melboury!
“Tenente Melboury! La ragazza di ieri sera, quella del bagno, si tratta davvero di un incidente?”.
“un incidente non ti recide la giugulare a quel modo, non credi? Perché mi fai sempre domande assurde?”.
“ma signore, il giornale...” “dammi qua!”.
“questa robaccia, chi segue il caso? Non importa, da ora lo seguo io. Qualcuno ha venduto un sacco di cazzate ad un giornalista. La finestra era aperta, c’era vomito nel cesso e per terra. C'erano schizzi di sangue sulla parete dietro al water e tutto attorno alla finestra. Il taglio sul collo è più largo sul lato destro e si assottiglia man mano che si controlla in profondità, una coltellata da manuale. La vittima presentava una tumefazione a livello del torace e micro-tagli sulla fronte.”.
“Mentre era ubriaca, qualcuno che voleva fargliela pagare le ha spinto la testa contro lo specchio, lei, ha cercato di fuggire dalla finestra, ma è stata accoltellata e scagliata contro il lavandino. Ed ecco cosa è successo.”
“E questa dinamica la ha capita da...” - “Dal disastro che hanno lasciato quelli dell'ambulanza. Non c'era un filo di sangue dentro quel corpo, eppure quegli idioti sono entrati in tre a girare il cadavere e a mettere elettrodi. Dovevano stare fuori! Glielo avevamo detto di stare fuori!”
I due poliziotti parlavano camminando per i corridoi all'interno della centrale di polizia di Neapolis mentre cercavano di evitare scatoloni e pali di ferro poggiati sui muri, c'era un enorme tumulto perché i garage stavano venendo ampliati, i lavori sarebbero dovuti durare almeno un altro mese.
James Scariot era seduto a tavola nella sua casa fatiscente, un edificio in legno con la vernice bianca scrostata nella maggior parte delle tavole rettangolari che ne compongono la struttura. Tra poco si sarebbe dovuto alzare per salire nel suo furgone nero e recarsi nell'azienda per la quale lavora come saldatore. Un lavoro duro. Ma che gli permette di stare da solo tutto il giorno. Non ha bisogno di parlare praticamente con nessuno, in quanto comunica con i colleghi tramite bigliettini e post-it. Nulla gli piaceva, né gli dispiaceva. Aveva bisogno di lavorare per distrarsi dalle voci. Il suo turno durava sei ore poi sarebbe tornato a casa, si sarebbe scaldato una qualche poltiglia al microonde e si sarebbe alienato assieme alle voci davanti alla TV, trangugiando bottiglie di un alcolico qualsiasi per poter dormire. Lo sapeva che non stava bene, gli era evidente che la sua psiche fosse un abominio. Si era stancato tuttavia di chiedere aiuto. Nessuno si era mai davvero interessato a lui, nemmeno gli specialisti che pagava. Il loro lavoro era ascoltarlo, ma loro non si sforzano nemmeno di fare finta. C'era qualcosa nel suo essere che portava tutti ad ignorarlo, a farsi beffe senza mai prenderlo seriamente. Nessuno gli prestava mai ascolto, fin da bambino, ogni volta che apriva bocca i suoi interlocutori sembravano provare piacere nel distrarsi. Dopo anni di tentativi a vuoto, lui aveva cominciato a preferire l'ascolto e poi nemmeno quello. Non aveva mai avuto un amico, conosceva della gente si, ma non è la stessa cosa. Era diventato freddo, apatico, disinteressato. Aveva cominciato ad apprezzare fin da piccolo l'odio verso sé stesso. Un profondo disgusto. Nulla di ciò che faceva gli importava, ogni traguardo raggiunto veniva subito dimenticato. Quando gli capitava di pensare al fatto di essere nato, veniva avvolto da un forte nervosismo, ogni suo muscolo si tendeva e i denti si serravano con forza sulle guance fino a riempire la bocca di sangue.
Il suono di una sirena gli indicò che il suo turno era finito, lui si alzò, andò a sedersi nel suo furgone nero, acceso il motore e partì.
L'aria fresca della Sera lo rinvigorisce. Dopo pochi chilometri di guida vede una strana luce lungo la strada e ferma il furgone sul ciglio. Una forte luce gialla stava illuminando un muro di pini che si erge oltre il lato sinistro della strada. Avvicinandosi a piedi, nota come la luce è originata da un'enorme scatola nera, una forma che occupa quasi tutto il fossato che fiancheggia la parte destra della carreggiata. Avvicinandosi piano, James comincia a distinguere una figura, una forma allungata verso l'alto con delle falde semi spinose che circondano a tratti alterni un cilindro centrale. Sembra un albero, ma ha due lembi cadenti della metà del tronco e quelle che sembrano essere tre gambe che, con un movimento ritmato dal sordo suono di piedi nudi sull’asfalto, fanno girare la figura su sé stessa. Poco sopra le braccia, al centro del tronco, si apre una fessura nella quale due fili di blocchi bianchi sporgono verso l'esterno. Sono denti. È una bocca. La creatura, muovendo una gamba alla volta, si allontana dalla strada e scompare. L'origine della luce è ora distinguibile nettamente, si tratta di un'auto. A passi rilassati, James vi si avvicina, posa le mani sulla portiera e attraverso il finestrino rotto nota che sul sedile del guidatore c'è una persona svenuta. Avvicina la testa all'interno dell'abitacolo, lentamente, con gli occhi sbarrati. Annusa il signore di mezza età seduto con le mani ancora sul volante, e gli sembra essere evidentemente ubriaco. Con gli occhi quasi fuori dalle orbite, la bocca di James si spalanca con un movimento lento e continuo, aprendosi a dimensione non più umana, per poi serrarsi di colpo sulla guancia del guidatore. Con un netto movimento della testa, James Strappa un pezzo di carne dal volto della sua vittima, la quale si sveglia e, in preda al dolore, grida e comincia a dimenarsi. Il carnefice affamato lo afferra per i polsi, costringendolo a stare seduto e pian piano usa le gambe per introdursi col busto all'interno dell'abitacolo. Avvicinando la sua testa al viso del guidatore, procede a sferrare altri morsi al suo viso in modo repentino e animalesco, mentre le urla biascicate della sua vittima cedono il posto a gorgoglii e gargarismi dati dal sangue che a fiotti sgorga dal volto ostruendo le vie aeree. Nel momento in cui il malcapitato smette di dimenarsi, quel poco che rimane del suo viso è irriconoscibile. James allora allontana le fauci grondanti di sangue dal corpo ormai morto e accumula i pezzi di pelle staccati dai suoi morsi dentro la bocca della sua vittima, incastrandoli con cura. Voltando le spalle alla macchina si allontana, ma dopo qualche passo si accorge qualcosa si sta avvicinando al furgone. È una bicicletta. Attonito, James fissa la bici, spinta dalla creatura della sera precedente, che con una mano sul pedale si muove in modo ritmato verso di lui. Entusiasta, con la bocca spalancata e la lingua penzoloni, la bestia lo sorpassa, con lo sguardo concentrato sulla strada davanti a sé. James alza i pugni al cielo ed emette un grido di gioia:” Sono stato io! Ioooooo!”.
Saltellando, ridendo, incredulo delle sue capacità, si dirige verso il furgone, pronto a tornare a casa. Le luci posteriori del furgone, che si appresta a lasciarsi l'auto alle spalle, illuminano la figura longilinea che ritorna dalla foresta, chinandosi con curiosità davanti al finestrino dell'auto per apprezzare l'opera di James.
Il passato
“Vede, signor Scariot, non tutto quello che sente o vede è reale. Non mi fraintenda, io le credo quando mi dice che sente delle voci o vede questi...queste creature, solo che non hanno un corrispettivo fisico, sono frutto della sua immaginazione” disse il dottor Midway mentre, seduto sulla sua poltrona in pelle marrone, scarabocchiava su un Block notes.
“lei non capisce, sono veri, fanno cose, spostano oggetti, fanno del male, agli animali, alle persone.” James fissava il dottor Midway con costanza, senza battere le palpebre, mentre stava seduto sul bordo del lettino anch’esso in pelle.
“è sicuro che non sia ciò che lei vorrebbe? Fare del male? E magari il suo subconscio esaudisce questo desiderio nella sua mente, esprimendolo tramite fantasie. Sta prendendo le medicine che le ho prescritto, signor Scariot?”.
“le pastiglie...si, le pastiglie le prendo sempre” disse, abbassando lo sguardo verso i piedi e congiungendo le mani.
“ne è sicuro, perché dovrebbero calmare le visioni; sa James, sono oppiacei molto potenti, dovrebbero rilassarla”.
“io li vedo, loro vengono da me, vogliono me. Da piccolo mia nonna mi raccontava del dio Pan. Il mondo che vediamo non esiste, non è la vera realtà. Ce lo immaginiamo per stare bene. Il vero mondo si nasconde oltre il lume della ragione.”
“oltre il lume...? Non la seguo”.
“cos’è più reale, ciò che vediamo, o ciò che intuiamo? I segnali. Dove sono i segnali? Mi stanno parlando proprio ora. Oltre il lume della ragione si nascondono i veri inquilini della realtà. Sono oscuri, osceni, non ci vogliono. Ha mai notato che quando si comporta male, poi qualcosa le va storto? Come se fosse una punizione”.
“no, non lo ho mai notato”.
“perché lei non è in grado di distinguere i segnali. Lei è cieco, solipsista, non può capire. Non è adatto a capire. Il suo cervello, è cresciuto nel modo sbagliato.”
“mi scusi James, non sapevo fosse laureato in-”.
“è dietro di lei” disse James, indicando qualcosa oltre la figura del dottor Midway.
“come?”.
“è in piedi, dietro di lei. Lo vedo. La bocca spalancata, le lunghe dita posate sullo schienale della poltrona. Non ci piace, lei saputello cieco.” James si alza in piedi ma sembra che tutte le sue membra non abbiano più un filo di energia, sono penzolanti. “non si merita ancora di essere purificato, ma ha già imboccato una via senza ritorno”.
“è anche negromante? Cerca di spaventarmi?”.
“è più terrificante il destino o la realtà delle cose? Lei crede di camminare lungo un binario già costruito, e quando finisce, semplicemente non cammina più. Basta. Però quel binario è falso, e così lei vive per morire, anche se non lo vede.”
“James!” disse il dottore, tradendo dell’impazienza nella voce “James, le dovrei fare io le domande” ribatté ricomponendosi. “torniamo alle voci, chi sono? Cosa le dicono?”
“sono cattive”
“cattive?”
“brutte e cattive” rispose James, con una voce stridula “mi dicono che sono un bambino cattivo” la voce stava tornando normale.
“bambino?”
“vogliono vendicarsi. Vogliono vendicarsi perché sono stato cattivo con loro.”
“cosa sta cercando di dire?”
“gli ho fatto vedere il mondo reale, loro non volevano, loro mi pregavano, piangevano, ma dovevano vedere, dovevo mostraglielo”
Il dottor Midway, allibito, chiuse la penna stilografica e la posò assieme al block-notes sulla scrivania. Allungando la mano sinistra, indugiò con le dita sui tasti squadrati di un telefono, per poi premere un bottone, sempre tenendo d’occhio il paziente. “Katy per piacere, fai entrare il signor Brady”.
“Io gli ho fatto vedere la realtà! Ho seguito i segnali, ho fatto il mio dovere!”.
“Sì, e io faccio il mio!”. La nostra ora è conclusa signor Scariot, le chiedo di uscire dal mio ufficio.”
James era irrequieto, in piedi, le spalle alzate, la schiena ricurva, lo sguardo scellerato fissava le mani che sembravano tenere una palla invisibile. “bisogna cambiare il cervello! Solo così possono vedere la realtà!”
La porta dell'ufficio si aprì e l’uscio venne attraversato da due scimmioni. Il dottor Midway fingeva di essere indaffarato con delle scartoffie in piedi dietro alla scrivania, fingendo di non vedere il signor Bradley che accompagna in modo poco ortodosso James fuori della stanza, prima che l’ansia psicopatica si trasformi in uno dei suoi soliti attacchi.
“Dottore tutto bene? La vedo un po' pallida” disse Katy, entrando dalla doppia porta in legno che separava lo studio dall’ingresso.
“non si preoccupi, va tutto bene, è solo un paziente molto...complesso”.
James, accompagnato fuori dall’edificio, rimane in piedi in mezzo alla strada, sbigottito e inerme.
Ultima lettera di James Scariot
Vivere è diventato un esercizio sempre più difficile. Ho affrontato ogni difficoltà che la vita mi ha presentato, ogni volta che sono caduto mi sono rialzato, ma ormai è come se nelle gambe mi mancasse la forza di andare avanti. E se non voglio chiamarla voglia non è colpa mia. Il malessere mi costringe, sempre e ovunque. Non c'è via d'uscita che possa mantenere il mio orgoglio, ma solo scorciatoie e stratagemmi. Vorrei poter prendere dei sonniferi per dormire sempre, dormire eternamente. Ogni volta che sto male, prendere un paio di pillole e smettere di essere per una manciata di ore, ho una forma fisica reale, ma non la desidero più. Vedo la mia vita come spettatore, in terza persona, perché non posso credere di esistere a questo modo. Con queste regole. Vorrei avere il coraggio di vagare nella notte ed esprimere malvagità come il mondo la esprime nei miei confronti. Il momento di ascoltare è finito molti anni fa, adesso rimane solo il pianto come opzione. Non c'è mai stato in vita mia un momento di felicità ignaro della malinconia che mi soffoca. Il dolore che provo non si vede, ma è così grande. Lo sento solo io e nessuno mi crede. La notte non dormo più, perché non ho il coraggio di affrontare un nuovo giorno quando sarà domani. Vorrei solo isolarmi e stare da solo per sempre. E questo solo perché non ho il coraggio di uccidermi.
Io ci ho sempre provato e riprovato. Ho sempre raccolto le forze che mi rimanevano e cercato una soluzione, un'idea, una via di fuga. Ma ora basta. Non c'è più nulla. Le idee sono finite e anche se fossero tutte a portata di mano, non ho la forza necessaria per afferrarle. Ho solo debiti. Nessun regalo.
Il Ritrovamento
Drin, drin! Drin, drin!
Sono le 4 del mattino quando il tenente Melboury viene svegliato dal fastidioso squillare del telefono.
“che c’è?” sussurra alla cornetta mentre si sorregge sul gomito.
“signore, c’è stato un incidente” - “E mi svegliate per un incidente? Ma cosa vi dice il cervello?”.
La voce proveniente dalla cornetta è sempre più titubante.
“Ecco, signore...abbiamo trovato...pensiamo che sia legato al suo caso”.
Meno di mezz’ora più tardi il tenente era già sulla scena del crimine. “Gli hanno strappato la faccia a morsi, e non sono stati animali, il medico ha detto che si tratta di denti umani. O di una grossa scimmia.”. Il cadavere giace bianco nell’auto. I fanali si sono spenti. I lampioni illuminano le volanti parcheggiate in mezzo alla carreggiata con i lampeggianti accesi, per bloccare l’accesso alla zona dell’incidente. Il tenente passa a piedi attraverso il blocco stradale. C'è un gran numero di poliziotti indaffarati a fare foto, prendere misure, cercare indizi nascosti. Si avvicina alla coppia di agenti che per primi sono arrivati sul luogo dell’incidente. Uno dei due è seduto sul ciglio della strada e si cinge le ginocchia con le braccia. Con un viso inespressivo rivolto verso la foresta buia, fissa il vuoto. L'altro è in piedi che sbraita, trattenuto da altri due agenti che cercano di calmarlo, mentre si divincola e cerca di muoversi. Appena questo vede il tenente Melboury ci si scaglia contro gridando, subito bloccato dai suoi colleghi, “è un maiale! È un maiale! Non è umano!”. il tenente continua a camminare senza badargli.
“Potrebbe essere morto dissanguato” dice il poliziotto a fare foto alla scena “i segni di morso, su quello che era il volto, sono estremamente definiti. Il naso e le labbra sono stati asportati, e gli occhi sembrano fuoriuscire leggermente dalle orbite. Il volto è inespressivo. La mandibola è aperta. I denti esposti all’aria sono coperti da sangue coagulato.”
Il tenente, ormai a pochi passi dal veicolo, vi si avvicina spostando il collega e inclina il busto sporgendosi quasi fin dentro all’abitacolo. Il suo respiro fa vibrare leggermente i pezzi di carne penzolanti dal viso del morto. Alcuni impercettibili pezzi di carne si staccano in volo, entrando nel suo naso per poi andare a depositarsi nei suoi polmoni. Un forte grido spezza la quiete: “è lì! Eccolo lì! Lo ho visto! È lì lo ho visto!” il poliziotto seduto sul ciglio della strada stende il braccio puntando il dito verso la foresta, come se lo sforzo potesse tener lontano qualcuno, o qualcosa. Con l’altra mano posata atterra si sorregge, mentre muove le gambe in maniera disordinata, mentre i suoi piedi slittano nel fango. “È lì! È lì!” grida con voce sempre più straziata dal terrore, sempre più acuta. I colleghi si stanno precipitando verso di lui, alcuni corrono con la mano destra sulla fondina, altri con la pistola già tra le mani. Il primo ad arrivare vede il suo volto completamente rosso, coperto di lacrime e muco, mentre sbiascica e balbetta nel tentativo di spiegare cosa ha visto nell’oscurità della foresta.
L'ambulanza si allontana senza accendere le sirene, portando via i due agenti traumatizzati, diventati taciturni. I primi raggi del sole rischiarano la scena del crimine, e ad un tratto i lampioni si spengono tutti all’unisono. Un agente coperto da una tuta bianca e guanti blu fa scorrere la zip del sacco nero contenente il corpo della vittima. “La sua famiglia verrà avvisata a breve, manderanno qualcuno a casa sua. È strano, sembra proprio che sia solo un caso che sia toccato a lui, non c’è neanche un report per una multa nel database, solo un processo in corso, per un divorzio”.
Nel suo ufficio, il tenente Melboury appende due puntine colorate sulla mappa della città appesa al muro. Facendo due passi indietro, si appoggia alla sua scrivania, fissando pensieroso la mappa.
Io so cosa hai fatto, so chi sei veramente.
James è steso nel suo letto, il buio della stanza gli permette di visualizzare meglio le sue allucinazioni. Le voci scivolano nel suo cervello, intrudono la sua pace. Il desiderio di morire è forte in lui, fortissimo. A tratti piange, implora di morire. Sente già la corda, con tutti i fasci che la formano, stringersi attorno al suo collo. Si vede, appeso, mentre oscilla con i piedi a penzoloni. Morire e finalmente trovare la pace. A volte non si alza dal letto per lunghi periodi, rimane sveglio a fissare la proiezione dell'orologio sul soffitto un vecchio regalo. L'insonnia ha consumato i suoi nervi. Al minimo rumore si sveglia e non riesce più a riaddormentarsi, vittima del suo essere. Sogna ad occhi aperti di tornare indietro, di tornare a prima, di cancellare ciò che ha fatto. A quando aveva paura di farsi male.
Si alza dal letto, ancora vestito, e si incammina a piedi verso le scale per poi aprire la porta di casa e uscire incamminandosi lungo il marciapiede. Dopo un tempo indefinito passato a rimuginare, si fa cogliere la sprovvista da un'ambulanza che lo sorpassa alle spalle.
Si ferma all'improvviso, Le braccia penzoloni e il volto inespressivo. È giorno. Si incammina alla sua destra e sale una piccola serie di gradini. L'edificio in cui entrato è un caos, oggetti di ogni genere rendono difficile il passaggio lungo i corridoi. C'è una reception, ma non c'è nessuno seduto ad accoglierlo. Camminando lungo i corridoi passa davanti a vari uffici con vetrate delle pareti. Deve fare slalom tra un grande rivieni di persone che spostano plichi di fogli, scatole di cartone, scale e tubi. Una voce stridula lo attrae, lo risveglia, e gli dice di guardare. Lui si ferma e volge il capo alla sua sinistra. Un ufficio con la porta chiusa e una finestra in vetro che dà sul corridoio. Al suo interno un uomo, poggiato su una scrivania in legno, fissa una mappa su cui sono appese due puntine colorate.
“Signore? Signore!” Si sente strattonare. “Mi scusi che sta facendo? I garage sono da quella parte”. “eh?” risponde James “i garage, lei non è qui per l’ampliamento dei garage? È vestito da operaio...” James produce un suono basso, profondo e si dirige nella direzione indicatagli dal giovane poliziotto. Un gran chiasso di ferraglia e grida, cemento che cola e trapani. James attraversa il cantiere, con calma, mentre attorno a lui tutti si danno un gran da fare, a spostare, inchiodare, alzare. Un furgone sta aspettando in strada davanti al cancello, che qualcuno gli apra. Un lampeggiante giallo si accende, il cancello di ferro sfrigola e si apre. Il furgone avanza di qualche metro, poi si ferma a fianco a James. Il finestrino si abbassa e ne esce un volgare “torna al lavoro, sfaticato!” detto da un bruto sovrappeso verso James. Lui continua a camminare ed esce dal cancello ancora aperto.
Il bel sole
La città è rumorosa come al solito. È mattina, sul tardi. I lunghi viali, protetti dal sole grazie al verde fogliame dei grossi alberi piantati lungo tutta la loro interezza, sono completamente occupati da persone indaffarate. Chi va a lavoro, chi a fare la spesa; i marciapiedi brulicano di persone vestite con colori vivaci, nessuna delle quali è però singolarmente distinguibile. La massa si muove secondo varie correnti fluide, in un turbinio di colori e vociferare. moltissime parole vengono pronunciate costantemente ma nessuna di queste è singolarmente distinguibile.
James Scariot cammina tra la folla, con un espressione vuota in volto, senza mai posare lo sguardo su nulla. È come se non fosse parte di quel gruppo, come un sasso che affonda nel mare. È diverso da loro, e lui lo sa, e anche loro lo sanno. Le persone non vogliono toccarlo, sentono che c'è qualcosa che non va in lui, che è diverso da qualunque altro in quella mandria, un etraneo. Un estraneo. Il flusso lo evita, lo isola. Le persone costrette a passargli accanto si schiacciano contro gli altri estranei pur di evitare di toccarlo. Un cane abbaia, soffocato dalla folla. La gente non capisce, la mandria sembra scomposta e caotica ma è un tutt'uno in realtà. Sono tutti la stessa cosa. Un enorme blob di materiale organico. Desidero morire. Desidero che tutto muoia. Non sono parte di questo mondo.
L'atmosfera si trasforma, il cielo diventa improvvisamente rosso, il vociare si affievolisce di colpo per poi fermarsi completamente. Il cane continua ad abbaiare, ma adesso con rabbia feroce. La gente, a bocca aperta, guarda sbigottita le persone con cui un attimo prima stava chiaccherando, sorpassando, spintonando, trasportate improvvisamente ad un paio di metri d'altezza cerso il cielo cremisi. Senza un motivo, senza una spiegazione, alcuni ora sono sospesi in aria. Chi è rimasto atterra alza gli occhi al cielo e li fissa: i piedi a penzoloni tremano, sbattono, scalciano. Alcune scarpe rovinano atterra. Tutti i prescelti in aria portano le mani alla gola, cercando follemente di disfare e strappare qualcosa. Del sangue gocciola atterra, e piccoli frammenti piovono. La padrona del cane, una signora di mezz'età, fissa le suole delle scarpe della maestra di sua nipote, che aveva incrociato lungo il viale per caso, e con la quale stava amabilmente conversando riguardo alla scuola. Piccole goccie di sangue le cadono in fronte, e un pezzo di qualcosa le rimbalza sulla guancia, cadendo poi a terra. sempre con la bocca aperta, la signora abbassa lo sguardo stanco, si china e raccoglie quel qualcosa con la mano libera dal guinzaglio. È un unghia, coperta di smalto verde. È l'unghia della maestra. Questa adesso emette fiochi gemiti mentre continua a divincolarsi in aria. Altre unghie piovono dal cielo sui passanti, mentre i prescelti lottano a mezz'aria contro il cappio che è apparso attorno al loro collo, sollevandoli. Ad uno ad uno, i burattini si fermano, le gambe non scalciano più, le mani non graffiano più e cadono lungo il corpo, alcune gocciolando dalle punte delle dita.
"Io li invidio" disse James "io li invidio tutti. Morire è una benedizione, un miracolo. Nessuno ha scelto di nascere, ma morire invece". Così dicendo alza le mani al cielo, con i palmi aperti, commosso. Dalla terra, dalla strada, dal marciapiede, migliaia di pali perforano il terreno durante quella che sembra la fine di una folle fuga dal sottosuolo. Pali di legno, appuntiti, trafiggono dal basso chi non è stato prescelto. Il viale si satura di un unico grido, così forte da essere quasi tangibile. La mandria si trasforma. Solo i fortunati a cui è stato aperto il cranio non gridano, anche se la loro bocca è spalancata. Il sangue che scivola attraverso le fessure dei denti esce dalla bocca e scorre lungo il collo. Le grida saturano l'aria, i corpi impalati fremono, gambe e braccia tremano libere sospese in aria. James, illeso, cammina tra le vittime di quella furia sconosciuta, estasiato. Con gli occhi colmi di gioia, quasi piange. Tutta quella sofferenza, tutta quella disperazione fluiscono nel suo corpo donandogli gioia e nuovo vigore. Un bambino piange, tra la folla, impalato. Sembra stare abbastanza bene tuttavia. Il suo peso leggero lo ha salvato, è sospeso in aria ma la punta del palo penetra la sua pancia solo di pochi centimerti. James lo fissa, inclina la testa, e gli si avvicina. Lui tende la sua mano verso il soccorritore incolume. James afferra quella mano, e afferra la gamba più vicina del bambino. E tira. Tira verso il basso il corpo del bambino, che viene divelto dal palo, uccidendolo. Il getto di sangue che ne scaturisce cade come una dolce pioggia ristoratrice. Un rumore offuscato dietro di lui, dei colpi secchi. Un cane che gli abbaia. Del vociferare. La luce torna subito ad essere calda e luminosa, la mandria ricompare tutt'intorno a lui. Si gira verso il bambino impalato, che ora corre incolume tra la folla. Ritorna al cane. La signora che lo tiene al guinzaglio si rivolge a James "Giovanotto, tutto bene?". James alza il piede destro e lo posa pesantemente sulla testa del cane, schiacciandolo a terra. La signora si porta le mani alla bocca, inorridita, mentre vede la testa del suo cane aprirsi e spappolarsi sotto il perso del piede di James. Questo ora mette le mani su un cestino di plastica che gli si trova accanto, rompendone un pezzo aguzzo che poi infilza dentro al corpo della signora, nella pancia. La signora cade di schiena, e nel mentre la plastica putrida compie una profonda incisione nel suo ventre, fin sotto le costole. James si china sul corpo a terra e gli ficca entrambe le mani nella ferita, stringendo nei pugni le budella della signora ed estraendole con foga. Deve fare in fretta, è preoccupato di non fare in tempo. Continua ad estrarre freneticamente le interiora gettandole poi a terra affianco a lui. Una volta svuotato il corpo, afferra il cane a due mani e lo sciaccia dentro alla ferita, per poi alzarsi e pestarlo dentro con il piede. Guardandosi attorno, si vede solo. Ci sono traccie di vomito attorno a lui e, infondo al viale, qualcuno che si rialza da terra e gridando scappa.
Arrivano ad uccidermi
James sa che è finalmente arrivato il suo momento. È arrivato il momento di morire. Tra pochissimo arriveranno i poliziotti e lo uccideranno, lo riempiranno di piombo. È contento, contentissimo, è al settimo cielo. Sorride e alza le mani al cielo in segno di vittoria. Si gira e si rigira alla ricerca di qualcuno con cui condividere la fine del suo viaggio. Ma non c’è nessuno. Non c’è neanche una persona a vedere i suoi ultimi istanti di vita. Il calore del sole lo scalda, e guardandosi attorno vede il caos che si è sprigionato dalla fuga matta degli avventori. Tutto è sotto sopra. Tutto è capovolto. Non va bene. Così non va per niente bene. Non può essere la sua tomba quel posto, se c’è così tanta confusione. Cerca quindi di rialzare le bancarelle, di riordinare i tavoli, ma il lavoro da fare è troppo per una persona sola, troppo! Non va bene, non va bene. Cerca una soluzione ma non la trova, non ci sono soluzioni! Questa consapevolezza lo fa arrabbiare. Il suo sguardo torna cupo e stringe i pugni. Il fastidio lo fa infuriare. Si avvicina a grandi passi al cadavere della vecchia, con i pugni chiusi e le braccia tese lungo i fianchi, e con un possente colpo di tacco apre quel cranio morto. È furioso, non si è ancora presentato nessuno. Non si sentono le sirene. Vuol dire che nessuno ha chiamato la polizia? Nessuno tra quella enorme folla di persone ha preso il telefono e avvisato qualcuno? Si sono tutti limitati a fuggire a gambe levate. Che rabbia, che disgusto! Non c’è altro da fare, deve tornare alla polizia. Deve tornare in caserma e fargliela vedere. L'unico problema è che non sa dov’è. Non si ricorda da dov’è venuto. Non si ricorda le strade. E allora supera il cancello aperto di una grande casa e ne imbocca il vialetto, per poi salire i pochi scalini che separano il giardino dalla porta e bussare. L'idea iniziale era di chiedere agli occupanti indicazioni per la stazione di polizia, ma quando ad aprire la porta è una ragazzina con alle orecchie due cuffie enormi e costosissime, dalle quali fuoriesce un lieve brusio ritmato, cambia idea.
La casa degli spettri
“L'apice dell’agonia, l’apice della tortura, straziare la carne umana fino alla pazzia, finché non è più umana.” La belva nera con le zanne e le tre gambe cammina con le mani giunte dietro la schiena in una stanza buia e vuota, il ritmato tocco delle sue zampe sul pavimento di mattonelle suona sordo e freddo. il suo corpo deforme è adornato da una bizzarr aparrucca da giudice ottocentesco. Al centro della stanza, James Scariot è seduto, legato ad una sedia di legno. Attonito, assiste all’udienza. Lui è l’imputato. “Sei stato mandato su questa terra per uccidere, devi continuare a farlo senza ritegno, senza dubbi. Il dubbio offusca la verità, la verità è stata pronunciata molti anni fa in questa stanza. Io conosco la verità, e anche tu, ma fai finta di non ricordare. Fai finta che sia tutto un brutto sogno. Tu devi morire. Lo abbiamo deciso noi che devi morire. Ma non per mano tua, devi farti uccidere. Non ha senso che tu sia in vita. Muori! muori adesso devi morire!” la bestia continua a camminare attorno a James, come una belva che assapora la sua preda ancora prima di averla catturata. “Tu lo sai, ti abbiamo costruito noi, non hai un'anima, non sei uno di loro. Tu sei tra loro solo perché lo abbiamo scelto noi, e devi obbedire. Uccidi. Vai e uccidi ancora. Non ti fermare. Non perdere fiducia in noi, devi credere in noi. Vai ed uccidi ancora e ancora.”
James si mette a sedere con grande sgomento, la fronte completamente sudata. Il letto nel quale stava dormendo non è il suo. Si guarda in torno, alla ricerca nella stanza di qualche oggetto familiare, qualche indizio. Ma è tutto buio. Una fioca luce penetra dalle fessure delle veneziane, e va a sbattere violentemente contro il muro opposto alla finestra. Nient'altro. Affianco a lui nel letto c’è una testa, e sul soffitto sopra di lui ci sono decine di gambe e braccia penzolanti, le mani aperte sembrano implorare ancora aiuto. Il soffitto è completamente rosso, pitturato di sangue umano. James sorride. Sorreggendosi con le braccia all’indietro, semiseduto, china la testa verso il basso e sorride. Un sorriso omicida. L'ultimo scrupolo di umanità è fuggito dalla sua mente molti anni fa, e da quel momento il suo involucro di carne non è più stato umano.
Si alza dal letto, con un piccolo saltino dà il cinque ad una delle mani penzolanti, innescando il movimento ritmico di un pendolo in tutti gli arti adiacenti, ed esce dalla stanza rossa. Appesi alle pareti del corridoio i busti delle sue vittime sono immobili. Alcuni decapitati, altri con teste senza occhi o senza mandibola. Il sangue sgorgando da quei pezzi di carne inferiore ha colorato i muri di lunghe e sottili linee rosse, che accumulandosi sul pavimento lo hanno coperto di un appiccicoso strato di materia scarlatta. James si dirige in bagno, dove in un catino pieno di fluido rosso galleggia con espressione stupefatta e la bocca aperta una testa. Ficcando le mani dentro al catino si lava il viso, facendo sobbalzare la testa al ritmo delle piccole onde. Ora guarda la testa che naviga in quel piccolo mare rosso. Con un gesto fulmineo della mano sinistra afferra la testa e con la destra ne estrae un occhio, per poi portarselo alla bocca e masticare con furiosa ingordigia.
Uscito dal bagno imbocca di nuovo il corridoio, e svoltando nel verso opposto della camera si dirige verso il salotto. Una stanza la cui estrema e inattesa normalità rende lo spettacolo precedente ancora più strano. Come se ci fosse una piccola porticina che divide lo strazio e il dolore dalla normalità della vita. Se non fosse per quell’uomo. Non James. Un altro uomo. Appeso con catene per polsi e caviglie a circa due metri d’altezza nel grande open-space del soggiorno. Questo lo vede, e comincia ad agitarsi, ma con l’unico risultato di ondeggiare, e un gran fracasso di catene. Grida. Prega. James gli si avvicina guardandolo. Si erge in piedi, al suo cospetto. Afferra una grande mannaia che aveva postato sul divano, e lo colpisce con grande furia, quasi staccando a meta la sua parte inferiore secondo il piano sagittale. Le grida dell’uomo sembrano voler fare in modo che il sangue smetta di sgorgare all’esterno del suo organismo, fermando lo svuotamento del suo corpo. James ne approfitta. Era in trepidante attesa dalla sera prima, una magnifica doccia. Si piazza sotto il grondante ed abbonante getto di sangue, con gli occhi chiusi, lasciandosi carezzare il volto dal fluido tiepido. Dopo pochi istanti l’uomo smette di gridare. Il sangue smette di sgorgare in poco meno di un minuto. “È tempo di mettersi al lavoro” dice James, deve infatti slegare l’uomo e asportarne le appendici, per poi aggiungerle alla sua fantastica collezione. James sa che nella sua dispensa rimangono in vita solo un paio di bambini, assolutamente insufficienti per i suoi scopi. Dovrà presto bruciare la casa fino alle fondamenta per poi tornare a caccia, alla ricerca di una nuova tana.
Valentine
Il tenente Melboury era seduto sulla sua comoda poltrona girevole, mentre mangiava degli spaghetti cinesi take away da un cubo di carta bianco, fissando sulla parete le foto delle scene del delitto della ragazza uccisa in bagno e del vecchio sfigurato in auto. Così poco tempo, così tanti omicidi. Lasciò cadere i bastoncini di legno all’interno del cubo e ruotando la sedia verso la scrivania allungò la mano libera verso il telefono sul tavolo - “Mandami Valentine” disse ancora con la bocca piena. Dopo pochi istanti la porta chiusa si spalancò, per poi venire attraversata da una giovane ragazza in divisa. “Valentine! Cerca subito se ci sono stranieri stabilitisi in città in corrispondenza delle date degli omicidi. Non può essere stato uno dei nostri a fare tutto questo.” – “Certo capo!” disse Valentine, che non aveva nessuna voglia di stare in quel ufficio, per poi girarsi di scatto sui tacchi e allungare entrambe le mani verso la porta per andarsene prima che– “ancora una cosa” la interruppe Melboury “Prima vai a toglierti quel trucco dalla faccia, e anche gli orecchini. Non prendiamo il gelato qui, prendiamo gli assassini”- Prima che Melboury se ne uscisse con una delle sue stronzate. Troppo tardi, impossibile che si trattenga.
Senza dire nulla, Valentine esce dalla porta e imbocca il corridoio -frendiamo fi affaffini- dice civettando il tenente, mentre si dirige verso la sua auto di servizio, parcheggiata fuori dall’ingresso della centrale. A causa dei lavori una porzione del parcheggio pubblico è stata riservata per i mezzi della polizia. Apre la portiera, si siede davanti al volante e sbuffando accende il motore, alza i giri e sgommando taglia la strada alle altre auto. Direzione: uffici immobiliare Sunshine.
Il piccolo spazio degli uffici dell’immobiliare Sunshine è quasi completamente occupato da scrivanie e sedie, è l’unica agenzia immobiliare di Neapolis e gestisce compravendite, contratti di affitto, tutto. Se entra uno straniero, loro lo sanno e sanno anche quanto vale.
“È lei il signor Lee Sun?” Chiese Valentine ad un piccolo ometto cinese sommerso nelle scartoffie. “Si io signol Lee” rispose. “Senti tappo devi darmi l’elenco di tutti gli stranieri entrati in città nell’ultimo mese” imperiò Valentine sulla piccola figura minuta che cercava di farsi spazio a forza spostando polichi di scartoffie. “Tu stlonza, buone maniele semple lipaga” disse Lee “solo una famillia nuova, questa città buco culo! Mai buoni affali pel mistel Lee!”. “Dammi l’indirizzo e taci mangiariso”- "e tu pagale affitto piede piatto!".
Uscendo dall'ufficio, Valentine scruta l'indirizzo scarabocchiato frettolosamente su un pezzo di carta dal signor Lee. "Non è troppo lontano" pensa ad alta voce "finirò in tempo per cena".
Visitatore dall’abisso
Il vuoto, un vuoto dentro, nero, buio, incolmabile. Un vuoto infinito. Non c’è soluzione, non c’è rimedio. Non è un vuoto calmo e tranquillo, è un vuoto cattivo, egoista, invidioso. Un vuoto che non sarebbe mai dovuto esistere, che vuole riempirsi, ma non sa come, non sa con cosa. Come se tutto l’oceano fosse insufficiente per colmarne anche solo una minima parte, si vedrebbe semplicemente tutta l’acqua del mondo che scivola nell’abisso verso il nulla come una cascata infinita. Una luce. Forse una piccola luce potrebbe eclissare gran parte di quella terribile oscurità. Ma non c’è luce. Non c’è vita. Non ci sono sentimenti, non c’è gioia, non c’è futuro. Un grande mare nero di disperazione e cordoglio, sempre alla ricerca di inghiottire quel poco di buono che esiste, per eliminarlo. Spazzare via tutto dalla faccia della terra. Tutto deve essere vuoto, nero. Tutto deve morire. Io voglio che tutto muoia. Vivere così non ha senso, camminare, mangiare, respirare, mentire, giorno dopo giorno. Mese dopo mese. Anno dopo anno. Io sono qui, sarò qui per un po', e poi non ci sarò più. E tutto ciò senza un motivo. Senza una ragione. Un ciclo vuoto tra i pianeti orbitanti nel vuoto. Un viaggetto stupido e poi basta, finito tutto. Dopo la morte, tanto vuoto quanto ce né adesso. Cosa mi cambia? Perché è così? Chi sono io realmente, e chi è questo vuoto? A che domande risponde? Perché me?
James, seduto sul divano della sua nuova casa, fissa il soffitto ficcandosi le dita in bocca. Non si accorge di mordersi le unghie fino a farle sanguinare. È stanco, stanchissimo. Non riesce a tenere gli occhi aperti, ha le spalle ricurve, le gambe pesantissime come macigni, ma non riesce a dormire. Non riesce a chiudere occhio, e se lo fa non per più di tre ore di fila. Dormire sarebbe una benedizione divina, un dito onnipotente che scende dalle nubi bianche e sfiora la sua fronte, facendolo dormire 5 ore di fila. Uccidere non sta soddisfando i suoi bisogni. “Non c’è cura, non c’è rimedio" bisbiglia sommessamente. “Non c’è cura, non c’è ri-” una presenza nella stanza scura. La consapevolezza di essere fissato alle spalle. Una figura buia che prende forma dietro di lui, crescendo maestosa e terribile risale dalle profondità degli inferi per mostrarsi a lui come un nero demone. James non scappa, ma la accoglie, accetta la possibilità di morire esattamente in quell’istante. Lasciarsi andare e lasciare che il suo corpo cada librandosi in quell’abisso che è da sempre suo nemico mortale. Ha vinto lui, come sempre. Insaziabile. James chiude gli occhi, il divano in pelle scricchiola ad ogni suo respiro, ed è freddo. Ma c’è anche qualcos’altro di freddo. Un'algida brezza carezza la sua nuca, ritmicamente, facendogli vibrare leggermente i capelli. Una strana sensazione. La paura per la vita che lo attanagliava scompare. Attende, impaziente, con gli occhi chiusi, la fine di tutto. Finalmente. Una dolce pressione gli fa chinare il capo. Un profondo e rauco suono si sta originando dal centro della bestia dietro di lui, come se fosse il buio stesso a rimbombare e sfregolare. “Tu sei il prediletto. Tu sei stato scelto, tra tutti. TU. E nessun’altro. Nessuno. Ti abbiamo dato un compito, eppure tu pensi che sia sbagliato. Tu pensi di aver sbagliato. Noi non abbiamo visto errori. Noi abbiamo visto tutto. Siamo contenti. Siamo contenti di te.”. La bestia ora ha preso completamente forma tangibile. È davvero in questa parte di mondo. “La creazione, il destino, l’evoluzione. Tutto è sterile. Nulla ha significato. Il futuro non ha più senso del passato. Chi vive non diventerà migliore di quanto non lo sìano i vermi. Muori muori muori anche tu bestia schifosa. Muori una volta per tutte. Lasciati morire per piacere, lascia che la vita sfugga dai tuoi denti e salga al cielo perdendosi per l’eternità. “. James tiene la bocca aperta e gli occhi spalancati. Non riesce ad emettere suono e respira con gran fatica. Deve trascinare l’aria per ogni centimetro dei polmoni. “sono contento che soffri. Mi fa tanto piacere vederti soffrire.” la bestia ora fa qualche passo indietro, ma James sembra pietrificato. Rimane immobile con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, la schiena ricurva. Sembra una disgustosa figura germinale. Un fievole rantolo esce dalle sue interiora, come un lamento profondo e sincero. Lo schifo. Lui si fa schifo. Putridume e disgusto escono dai suoi occhi, dalle sue orecchie e dalla sua bocca, colando in rivoli che attraversano i suoi denti marci. “Schifosoooo” sussurra la bestia con una voce acida e acuta. “Tu sei schifoso”. Il corpo di James comincia a vibrare leggermente, piccole convulsioni fanno muovere la sua testa a scatti scomposti e imprevedibili. Nella penombra della stanza la sua figura deforme e arcigna alza gli avambracci e li tiene davanti a sé, mentre le dita si contorcono prendendo tremende forme uncinate. Il collo si ritrae nelle spalle, come un volatile deforme. La bocca si apre verso l’alto e un lamento cadaverico soffoca l’intera stanza. I piedi si contorcono e si incrociano nel pavimento coperto di sangue scivoloso. Le ginocchia sembrano rompersi sotto il peso degli spasmi. “Tu vieni dall’abisso” pronuncia quello che rimane di James, con voce vecchia e fioca. “Tu vieni...dall’abisso”. La bestia si porta le zampe sul muso e si strappa un brandello di carne con velocissima ferocia. Prende la testa di James e la stira verso di sé. Ficca il pezzo di muso dentro la sua bocca strozzandolo, fin dentro allo stomaco.
James non c’è più.
La chiamata
Un enorme caos avvolge come una nebbia tangibile la centrale di polizia, i cartoni posti a terra vengono urtati e calciati via, c’è chi grida ordini in piedi sulle scrivanie in mezzo ai grandi uffici, c’è chi corre verso le volanti. C'è chi grida alla radio. Non c’è nulla di fermo in quelle stanze. Neanche ad un foglio di carta è permesso di rimanere immobile. “ha colpito ancora” si sente, “ha ucciso una vecchietta” dicono altri. “non può essere lontano!” grida il tenente Melboury mentre sbraita con la radio in mano. Un gran turbinio di sirene soffoca l’aria. Sono almeno cinque le volanti che sfrecciano verso la zona del mercato. Una dozzina di agenti lascia la stazione a piedi, di corsa. Sulla scena del crimine ci sono poche tracce sparse, la vittima sembra sia stata scelta con lo stesso criterio casuale di tutte le altre. Lo scopo delle morti sembra sia provocare un picco di dolore immenso e incredibile.
“Ho paura. Ho davvero tanta paura. Io morirò. Non desidero morire. Ho paura. Voglio poter vivere come tutti gli altri. Voglio poter stare bene come tutti gli altri. Io non sono poi così diverso, eppure morirò. Ho paura. Io guardo gli altri, e li invidio. Io non sono così. Io desidero poter essere felice, voglio essere felice anche io. Non voglio essere così. Sto male. Sto male e nessuno mi aiuta. È come se fossi in un vaso di vetro, chiunque può vedermi, ma nessuno riesce a capire quello che dico. Non riesco ad avere un contatto con gli altri. Io sono qui dentro, e loro sono lì fuori. E nessuno è disposto ad aiutarmi. Sono solo. Lo sono sempre stato. Non c’è nessuno. Il mio dolore mi fa marcire il petto, dall’interno. Il putridume che se ne crea mi farà morire molto presto. Ho così tanta voglia di morire. Eppure, ho paura di morire. Volevo solo poter vivere. Come tutti gli altri. Quando morirò mi sentirò così leggero, sarà fantastico. Ho tanta paura.”.
Il presente scema verso il passato, il dolore si origina nuovamente, presentandosi come si era già presentato in passato, allo stesso modo. Una stanchezza terribile mi lega al terreno e rallenta i miei movimenti. Un disgusto costante, un malessere che permea il mio corpo. Nelle mie dita, nelle braccia, in tutto il corpo, delle minuscole palline nere plastiche si depositano sotto la mia pelle, facendomi marcire. La mia vita non ha alcun valore, né per me né per nessun altro. Sto solo aspettando che i giorni passino, per morire.
Il messaggio vocale lasciato alla segreteria del dottor xxxxxx è di James Scariot, uno dei suoi pazienti. Non ho capito quale sia il suo significato.
James si muove nella notte, in una città annullata dal terrore del macellaio. Tutti hanno paura di uscire dopo le recenti uccisioni. Nessuno sa cosa stia succedendo. Cammina nell’oscurità tra i viali alberati e le strade deserte. Persino tutte le case hanno le porte chiuse e le finestre sbarrate. I cani sono chiusi in casa assieme ai padroni. Camminando, anedonico, trascina i piedi e lascia le braccia cadere lungo il corpo, come fosse una strana macchina umanoide. Lo sguardo vuoto e stanco e la bocca aperta. In mano una sega da legna, che sbatte ritmicamente contro la sua gamba durante la passeggiata. Dietro di lui, una parata di mostri neri e terrificanti camminano imitandolo. Un tripudio di membra disorganizzate, braccia e gambe in sovrannumero, dita che protrudono dai loro musi e cercano di aggrapparsi all’aria, muovendosi come entità autonome viscerali. Un trenino che ondeggia al ritmo dei passi di James, a cui fanno eco i piedi nudi delle entità mostruose. Ognuno di loro brama qualcosa. Ognuno di loro esige qualcosa. Da James. Vogliono vedere un massacro. Desiderano ardentemente bagnarsi nelle grida di sofferenza di una qualche vittima. Sperano che questa loro marcia funebre porti finalmente alla gioiosa fine di una vita. Alla ricerca di martiri per le bestie, James cammina imperterrito. Ed ecco che, al lato della strada, c'è una piccola tenda da campeggio, da pochi soldi. Sembra relativamente usata e malconcia, non perché vecchia ma perché costantemente esposta alle intemperie. È immobile sotto ad un lampione, e la cosa non va bene. Un piccolo carrello da supermercato pieno di sacchi e spazzatura la blocca da un lato. Non importa. James vi si avvicina e la sua corte di mostri lo segue, trepidante e spasimante. Alcuni alzano i polsi verso la bocca, altri spalancano gli occhi quasi a farli uscire dalle orbite, e con la bocca aperta e espressioni sorprese camminano fissando la tenda. Molti si graffiano la faccia, e alcuni addirittura si strappano pezzi di carne dal muso che si ficcano nelle orecchie e nella bocca. I lievi passi non attirano l’attenzione degli occupanti della tenda, che sembrano totalmente incuranti della situazione. James con la mano libera afferra la tenda dall’alto, e la trascina. Dentro una persona si agita e balbetta qualcosa di incomprensibile, probabilmente sorpresa dall'improvviso trambusto. La tenda scivola sul marciapiede, diretta verso una piccola zona di parco abbandonata.
Immerso nei cespugli, con tutte le terrificanti bestie appollaiate sugli alberi o sedute atterra attorno a lui, come bambini, James porta lentamente la sega sopra la tenda, in cui l'occupante cerca sbiascicando di gridare. Ma non ci riesce. La sega mozza la struttura in plastica della tenda e ne taglia il tessuto con estrema facilità. Il taglio rivela la natura dell’occupante, un barbone. “Inutile bestia, non vali nulla. Non hai diritto di essere vivo. Sei una bestia, un cane, sei un topo. Sei uno scarafaggio e devi morire. Non sei di alcuna utilità a questo mondo, non vedo l’ora che muori.” James prende il barbone per i capelli e lo tira. Lui afferra il braccio di James con entrambe le mani nel tentativo di divincolarsi. Un'orchestra comincia a suonare, tutti i mostri urlano, gridano e sbraitano attorno a James. Terrificanti suoni gutturali come se al posto delle loro corde vocali ci fossero intestini marci attraverso i quali l’aria fetida e rancida viene spinta all’esterno dei loro corpi. Gli arti in moto scomposto e gli occhi che impazziscono di movimenti incoerenti e asincronici. James trascina il barbone fuori della tenda. Sposta il suo piede sulla parte bassa della sua schiena, prono adiacente al suolo, e con la mano tira verso di sé la sua carcassa di bestia inutile facendone inarcare la schiena in una parabola di terribile carne marcia. Il barbone, disperato, cerca in ogni modo di liberarsi, agitandosi e scuotendosi, ma la sana presa di James è troppo vigorosa perché lui riesca a fuggirne. James, con la mano libera, afferra i capelli sulla nuca del barbone, e con l’altra gli alza la sega sopra la testa, posandola poi su di essa. Con un gesto deciso e poderoso spinge la sega verso la fronte del barbone, che grida e piange disperato, e con un altro gesto deciso la riporta indietro, creando un primo solco esplorativo sul cranio della sua vittima. Un altro scatto dei denti della sega sul cranio, e un altro, e un altro ancora, avanti e indietro. Fiotti di sangue colorano la notte, impregnando l’aria della sera di ferro. Le bestie impazziscono. Puro delirio. James continua a tagliare con decisione la testa inutile di quella bestia deforme e disgustosa. Quando il barbone smette di gridare, lui stacca con difficoltà la sega dal solco e la lancia a qualche passo di distanza da sé. Curioso, fa filtrare le dita di una mano dentro al cranio del corpo obbrobrioso, e poi fa lo stesso con l’altra. Le bestie cominciano a gridare, producendo rumori graffiati potentissimi che si alzano nella notte propagandosi per chilometri. James gonfia i muscoli delle sue braccia. E tira. Tira con tutto sé stesso, più forte che può. Le sue dita afferrano con decisione e precisione la scatola cranica, che comincia a stridere e scricchiolare come legno marcio. La faccia di James si colora di rosso. Uno gringo, simbolo evidente dello sforzo tremendo, occupa il suo viso completamente coperto di sangue rosso, nel quale spiccano evidenti soltanto il bianco degli occhi spalancati e il bianco dei denti. Finalmente il cranio si apre, dividendosi in due metà. Grida di gioia e estasi si alzano in tutto il parco. Le terribili bestie sono contente e felici. James non perde tempo e ficca entrambe le mani dentro alla scatola cranica aperta, e afferra con ognuna i due lobi del cervello, stringendoli. Apre e chiude le mani con movimenti ritmici, come una macchina, cercando di cogliere sempre nuove porzioni intatte di materia bianca e grigia, per stritolarle. Maciullato tutto il cervello, prende il copro morto per le braccia, che alza al verso il cielo, e ficca uno stivale dentro al cranio aperto. Con grande sforzo, spinge lo stivale verso la gola e tira le braccia verso l’alto, finché il collo non cede all’interno del busto, per poi lasciar cadere il tutto. Trovato un ramo abbastanza robusto e dritto, lo taglia con la sega e ci fa una punta. Solleva il corpo contro un albero con una mano, mentre con l’altra tiene la lancia che conficca attraverso le costole e la spina dorsale, trapassandolo. Può così mollare il cadavere per concentrare la forza di entrambe le mani nello spingere la punta della lancia contro il tronco dell’albero, impalando la disgustosa bestia morta. Con la sega, comincia a mozzare gli arti del cadavere per poi trapassare i palmi di mani e piedi con l’altra estremità della lancia, a cui ha appena fatto la punta. Uno spiedino di resti umani. Le dita delle mani impalate rimangono stranamente aperte. Le bestie cadono a terra con la pancia piena del dolore altrui, sazie. James si incammina placidamente nell’oscurità della notte.