NON FARTI VEDERE MAI PIU'
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NON FARTI VEDERE MAI PIU'
“E non farti vedere mai più!”
Le parole erano brutte ma il tono era amichevole, affettuoso. La Direttrice era veramente a posto e aveva creduto in me prima ancora che lo facessi io. Ho un po' paura, lo ammetto, perché varco quelle porte di ferro per la prima volta dopo 4 anni sei mesi e 24 giorni. La condanna era a 6 anni di reclusione ma, tra sconti e abbuoni per buona condotta, ho risparmiato un bel po’. Non sono mai uscita, ad eccezione del giorno in cui ho discusso la tesi, anche se avrei potuto farlo da tempo con permessi e addirittura con una richiesta di semilibertà che non mi sarebbe stata negata. Non ho voluto però, perché fuori non avevo nessuno che mi aspettasse, né un posto dove andare. E poi temevo che se fossi uscita non avrei più sopportato la reclusione, vivere qui. Anzi, lì. Mi correggo voltandomi, il carcere si allontana alle mie spalle. Ho un piccolo trolley con pochi effetti personali, ma sulle spalle reggo uno zaino pesante che contiene tutto quello che fa di me una persona nuova, diversa. Ci ho infilato tutti i codici di rito e procedura, la documentazione universitaria, il diploma di laurea e i primi due libri che ho letto in vita mia: Il Conte di Montecristo e Papillon. Romanzi d’evasione… ancora rido tra me, se ripenso a quel pomeriggio.
Ero lì da tre mesi e avevo perso almeno 10 chili. Non parlavo con nessuno, nemmeno con le mie compagne di cella. Niente psicologa, sacerdote, niente. Passavo il tempo a odiare me stessa e il mondo intero. Quel pomeriggio la Direttrice mi volle a colloquio e mi chiese un sacco di cose: della condanna, del perché non venisse nessuno a farmi visita, o ancora se subissi qualche forma di violenza in Istituto. Insomma, parlò e parlò, da sola perché io non risposi nulla. Mi chiese anche se volessi lavorare, perché il carcere aveva alcuni laboratori, specialmente quello di sartoria, molto apprezzati e che davano un discreto guadagno alle detenute. E poi se avessi mai pensato di continuare gli studi, visto che avevo un diploma di scuola superiore. La dottoressa Ada, è il suo nome, non sembrò infastidita dal mio maleducato silenzio e terminò dicendomi che avrei dovuto approfittare di quel tempo per dare una svolta alla mia vita.
“So che non hai preso una rivista o un libro in questi tre mesi, eppure abbiamo una buona biblioteca -disse aprendo un cassetto- sapessi quanto può aiutarti la lettura in questo tempo così fermo! Guarda Alice, posso darti del tu, vero? Ti lascio questi due romanzi, sono sicura che ti piaceranno.” E qui fece la battuta sui romanzi d’evasione.
Per tutta la prima settimana nemmeno li guardai quei libri, che poi invece ho anche comprato, ma giunta alla fine della seconda settimana, chiesi un nuovo colloquio con la Direttrice. Volevo restituirli, ringraziarla per i suggerimenti e scusarmi per essere stata così scortese la volta precedente. Lei non sembrò meravigliata del mio cambiamento e ricominciò a parlarmi delle opportunità che mi offriva quel carcere. Uscii da quella stanza con un permesso per lavorare in prova nella sartoria del carcere e un elenco di facoltà che offrivano corsi di laurea online.
“Ce la farai -mi disse senza nessuna enfasi- sono sicura che ce la farai.”
Finora ha avuto ragione, perché in tasca ho un libretto di risparmio con quasi 3000 euro. E l’indirizzo di un Centro dove potrò alloggiare per qualche mese. E una lettera di raccomandazione di Ada che dice un gran bene di me.
Potrei prendere un autobus per arrivare al Centro, ma mi va di camminare e ricordare. Avevo cominciato quel mio percorso di emenda nel peggior modo possibile e spero di averlo terminato nel migliore. Nei primi mesi le mie compagne mi avevano affibbiato un soprannome: la muta. Oggi tutte mi chiamavano l’avvocato. Anche la Direttrice una volta mi ha chiamato così ed è stata l’unica volta che ho pianto, da adulta. Mi accompagnò a sostenere l’esame di laurea e alla fine mi abbracciò e mi disse: “Complimenti, avvocato.”.
Un po' l’ho fatto davvero l’avvocato in questi anni, perché non appena superai i primi esami diventai il riferimento di tutte le detenute: un permesso, un’istanza per ridurre la pena, un trasferimento. È stato bello sentirsi utile.
Sono pronta? Non lo so, ma certamente sono pronta a provarci. Forse avrò problemi per iscrivermi a un ordine professionale, con i miei precedenti, ma ho spalle forti oramai e so di poter affrontare qualsiasi difficoltà, almeno lo spero. Ho un progetto: uno sportello di aiuto alle donne in difficoltà, e lo realizzerò proprio insieme al Direttore del Centro dove mi accoglieranno e non vedo l’ora di cominciare. Voglio restituire ad altre donne un po’ della fiducia e della cura che ho ricevuto io, pur non meritandolo. Mi sono solo rifiutata di chiamarlo Sportello Rosa. Detesto quel colore sdolcinato, preferisco il verde, il colore della speranza. E poi è il mio nome: io mi chiamo Alice Speranza, ve l’ho detto?